Martedì 13 novembre 2018
Martina Spadoni, di Passo Ripe e giovane membra del Centro Missionario Diocesano (CMD) della diocesi di Senigallia (Italia), ha fatto una bella esperienza di due mesi al centro di riabilitazione delle donne rapite dai guerriglieri – donne che nessuno vuole più quando ritornano a casa, nel villaggio – e che vengono accolte nella missione, a Gulu, nel Nord Uganda. Rosemary Nyirumbe, religiosa ugandese delle Suore del Sacro Cuore, e P. Luigi Gabaglio, comboniano italiano, hanno contribuito alla realizzazione di un sogno che è diventato realtà. Qui pubblichiamo tre lettere nelle quali Martina descrive con il cuore pieno di fede i suoi giorni indimenticabili in territorio ugandese.

I primi giorni di Martina
in Uganda

Cari amici,
vi scrivo da Gulu, una calda città del Nord Uganda, dove la vita sembra scorrere serena, sotto il cocente sole africano e il rumore dei boda bodas che circolano rapidi nelle strade della città, strade sempre affollate di persone, di vite e di volti che amano vivere la socialità fuori dalle proprie case, proprio nella strada che diventa luogo di incontro e di condivisione.

Sono approdata qui circa due settimane fa, o meglio, sono atterrata ad Entebbe e dopo un lungo viaggio in macchina, sono finalmente arrivata alla “Saint Monica School”.

La folle idea di trascorrere due mesi in questa scuola è nata dal desiderio di condurre una ricerca sulle ex bambine soldato, fenomeno che ha colpito in particolar modo il Nord Uganda nei suoi lunghi anni di guerra, terminata nel 2006, e che sarà oggetto della mia tesi di laurea.
È in questo scenario che, a partire dal 1987, ha preso vita il “Lord’s Resistance Army”, un gruppo ribelle di matrice cristiana, guidato da Joseph Kony, che ha lasciato dietro di sé la folle eredità di trentamila morti, centomila minori schiavizzati come baby soldato e oltre due milioni di profughi.

È in questo dramma che ha brillato l’azione di una piccola grande donna, Rosemary Nyirumbe, religiosa ugandese, inserita tra le 100 personalità più influenti nel mondo secondo “Time Magazine” nel 2014 e nominata eroe dell’anno da CNN nel 2007, che ha dedicato tutte le sue forze per sostenere le vittime delle violenze dell’Lra, in particolare le ragazze sequestrate, brutalizzate e fatte schiave sessuali dei miliziani, bambine innocenti e poi donne rese strumenti di morte nelle foreste dell’Africa. Queste ragazze hanno vissuto un dramma più grande della guerra, che è stato quello di un post guerra in cui si sono trovate di fronte ad una battaglia quotidiana con i propri sensi di colpa, in una società in cui nessuno sembrava essere disposto a prendersene cura, considerate ormai scarti da gettare via o potenziali assassine.

Questo desiderio è nato dall’incontro con suor Rosemary lo scorso Ottobre al festival della Missione a Brescia ed è stato sostenuto poi dalla mia università, ma sicuramente guidato, lasciatemelo dire, dal filo rosso della Provvidenza, che ha messo sul mio cammino tutto ciò di cui avevo bisogno per avverare questo piccolo grande sogno nel cassetto e che mi ha donato la fede e il coraggio necessari per buttarmi in questa nuova avventura.

Bene, oggi posso dirvi che, nonostante le difficoltà iniziali che ho dovuto affrontare, la gratitudine per essere qui è tanta, e tutto ciò che sto vivendo sta allargando il mio cuore più di quanto potessi immaginare.

I primi giorni non sono stati affatto facili, sono necessari una buona dose di tempo e pazienza per imparare a vivere tra ragni, pipistrelli e topi, temporali notturni e docce fredde, immersi in un mondo e in una cultura completamente differenti, in cui nessuno parla la tua lingua e in cui non capisci bene come muoverti o che cosa fare. Questo luogo ora sta diventando per me sempre più famigliare e ogni giorno che passa mi accorgo di sentirmi sempre più al posto giusto. La prima settimana ho potuto gustare appieno l’accoglienza e il calore dei bambini dell’asilo, che, nel mio smarrimento iniziale, mi hanno fatta sentire da subito a casa. Non ho parole per descrivere la capacità che hanno avuto di volermi bene fin dal primo istante, dal primo sguardo, senza bisogno di nessuna spiegazione. Ho potuto sperimentare la bellezza della Messa domenicale, in cui canti, danze e abiti colorati mi hanno testimoniato un Dio della gioia che danza e fa festa con il suo popolo.

La seconda settimana ho iniziato a dedicarmi alle ricerche per la tesi e a frequentare le lezioni del corso di cucito con le ragazze della “Saint Monica Girls’ Tailoring School”, e il tempo è volato. Tra un pausa e l’altra ovviamente non può mancare un giro in altalena o un tiro a pallone con i bambini. Sto affrontando tante mie paure… tranne quella dei tacchini e delle galline, da loro giro ancora molto alla larga.

Un affettuoso saluto da molto lontano… anche da parte degli amici tacchini!
A presto, Martina.

Gocce di vita dall’Uganda

Martina Spadoni.

È passato più di un mese da quando sono arrivata, ed è incredibile scoprire come siano cambiate le cose in così poco tempo.

“Voglio tornare a casa” è stato il mio primo pensiero quando sono arrivata qui. Oggi questo pensiero si è trasformato in “non voglio più tornare a casa” (tranquilli mamma e papà, ormai ho il biglietto dell’aereo, non posso farci niente).

Non è semplice spiegare a parole quello che si vive in terra di missione. Ogni volto incontrato, ogni mano sfiorata, ogni sguardo scambiato ha una risonanza in me e tocca parti profonde del mio cuore. Una mattina quando mi sono svegliata ho trovato il secchio del bagno, che di solito utilizzo per lavare i panni, quasi pieno e non capivo come fosse possibile visto che il rubinetto sotto cui l’avevo appoggiato era chiuso. Poi ho capito che quel rubinetto perdeva delle gocce d’acqua, e queste gocce molto lentamente avevano fatto sì che, nel silenzio della notte, il secchio si riempisse. A volte vediamo solo una goccia e crediamo che sia inutile, che non sarà mai abbastanza per creare qualcosa di grande e bello. Alcune gocce sono grandi e rumorose, ci si accorge quando cadono nel secchio. Altre invece sono silenziose e nascoste, bisogna chiedere a Dio la grazia di avere occhi capaci di vederle e gustarle per sentirsi davvero dissetati. Quelle gocce sono per me quello che sto vivendo qui giorno dopo giorno. Parole, volti, gesti, profumi, musiche, colori.

A volte queste gocce portano con sé gioia, gratitudine, spensieratezza, libertà, pace. I sorrisi dei bambini, le loro piccole manine nere appoggiate sulle mie, i canti e le danze delle ragazze della scuola. Sono gocce dai colori caldi che profumano di vita e di allegria. Altre volte invece sono gocce un po’ dolorose, che provocano un turbamento del cuore, come le parole che escono dalla bocca delle ex bambine soldato quando gli chiedo di raccontarmi che cosa è successo quando erano nella foresta. È così che queste ragazze, ormai diventate donne, mi aprono il loro cuore, consegnandomi forse la parte più intima e dolorosa della propria vita. In quell’ora, fatta di domande e risposte, di lacrime che rigano i loro volti dallo sguardo profondo, provo ad entrare nel loro mondo e in queste storie atroci. Storie che hanno lasciato un segno profondo nella loro anima e nel loro corpo, fatto di cicatrici che ancora oggi, quando si guardano allo specchio, gli ricordano quello che hanno vissuto. “Se oggi sono qui è solo grazie a Dio. Sì, mi sono spesso sentita in colpa per quello che ho fatto, ma non avevo alternativa, obbedire era l’unico modo per salvare la mia vita”, mi racconta Grace. Un dolore, il loro, che solo Dio ha potuto accogliere e consolare, quando nessuno intorno a loro era disposto a farlo, quando la paura che queste ragazze potessero tornare a uccidere sembrava prevalere sull’amore che i loro stessi genitori e tutta la loro comunità provavano per queste ragazze.

Queste parole, che escono come lame taglienti dalla loro bocca, sono una grazia che fa nascere in me un turbamento, quella sana inquietudine  che ti viene quando ti fai le domande essenziali della vita e che non ti fa dormire la notte. Sono estremamente grata per questa inquietudine, Dio mi salvi dall’indifferenza, sempre.

In questo tempo ho avuto l’occasione di vivere tante esperienze diverse, di uscire dalla scuola per visitare alcuni villaggi a poche ore di distanza da Gulu, dove le suore del Sacro Cuore di Gesù portano avanti giorno dopo giorno un’azione costante e silenziosa, per cercare di dare risposta ai bisogni che questo popolo presenta oggi, attraverso orfanotrofi, scuole e cliniche mediche.

La settimana scorsa l’ho trascorsa a Kampala, nella capitale, dove ci siamo recati per accompagnare un padre comboniano italiano che era caduto e che aveva bisogno di alcuni controlli. Sei ore di macchina per trovare l’ospedale attrezzato per ciò di cui aveva bisogno.

Siamo partiti pensando di rimanere fuori solo una notte, ma alla fine il tempo si è prolungato a causa delle sue condizioni di salute. Così ho trascorso sei giorni a Kampala con un cambio di vestiti e pochissime altre cose. Inizialmente questa cosa mi faceva arrabbiare, per me era solo una deviazione dal percorso, qualcosa che non mi riguardava e che mi allontanava dall’obiettivo per cui ero partita. Una perdita di tempo insomma. Poi piano piano, affidando questa fatica a Dio, ho iniziato a capire che in quel momento prendermi cura di questa persona e volergli bene significava amare Dio. Ho visto la fragilità nel corpo e nella mente di quest’uomo e Dio mi ha chiesto di amarLo prendendomi cura di questa fragilità. A volte pretendiamo di decidere noi qual è la cosa migliore per la nostra vita, pensiamo di avere il controllo totale su quello che facciamo, invece ho scoperto una buona notizia: mi posso rilassare perché per fortuna non sono io ad avere le redini della mia vita, sennò chissà a quest’ora dove sarei. Posso fidarmi di Dio, fidandomi delle persone che mi ha messo accanto, ovunque io sia, e posso vivere con libertà e gratitudine la vita che Lui decide di donarmi.

Ah, dimenticavo: il 2 ottobre alle 17 i tacchini hanno circondato la mia camera per vendicarsi. Evidentemente non hanno gradito quello che avevo detto su di loro.
Un abbraccio da Gulu, ed a presto.
Martina

Martina Spadoni.

Una valigia più leggera

Ci siamo. Le valigie sono chiuse. No, questa volta non mi ci sono dovuta sedere sopra per chiuderle, come capita al ritorno da quei nostri viaggi in cui il troppo shopping ci fa stare con l’ansia di non passare i controlli all’aeroporto perché la valigia pesa troppo. Questa volta è tutto diverso. Le valigie sono più leggere dell’andata, perché sono state svuotate di cose inutili, di tutte quelle cose che ho messo dentro prima di partire pensando che sarebbero state indispensabili.

Beh sai, stai andando dall’altra parte del mondo, ti ripeti prima di partire, e non sai bene cosa ti aspetterà, meglio portarti tutto quello che pensi potrebbe servirti, anzi di più, anche cose che forse non ti serviranno mai. Esatto…cose. Cose, cose, cose. Ma quante cose abbiamo e quanta fatica facciamo a staccarci dalle nostre cose? Più cose abbiamo e più ci sentiamo meglio. Forse a volte ci fanno sentire più al sicuro, ci illudiamo che con le nostre cose siamo un po’ meno soli. Siamo accumulatori seriali. Tu vali in base a quello che hai. È così che ci fanno credere delle volte.

Poi ad un tratto arrivi in un Paese in cui la gente non ha nulla, eppure ti rendi conto che vale tantissimo. Allora inizi a farti delle domande e a pensare che forse è ora di cambiare la tua unità di misura. Un Paese in cui la gente non possiede nulla se non quello che può donarti. Il Paese di chi ha vissuto 20 anni nella guerra, di ragazze ritornate dalla foresta senza nulla, se non con un bambino da crescere, senza soldi, senza un lavoro, senza una casa e peggio ancora senza nessuno disposto a tentare di ricostruire insieme pezzi di questa umanità ferita.

A 7 anni forse sarebbe più giusto tenere in mano una matita e un quaderno piuttosto che un kalashnikov, non credi?

Queste ragazze mi hanno insegnato a stare nella vita in modo diverso perché hanno compiuto il loro cammino più lungo, la strada che porta da “io ho” a “io posso”. Forse non avevano nulla, ma qualcuno ha creduto in loro pensando che potessero fare qualcosa di buono, diventare un giorno donne migliori. E ancora oggi, sapete, questa gente non ha granché. Eppure è capace di darti tutto.

La mia valigia è più leggera perché ho lasciato delle cose, ma penso che le cose che lasciamo siano solo il pezzo più superficiale di noi. Forse potrai anche diventare capace di superare la tua avarizia, diventare così buono e generoso da regalare alcune tue cose, ma il gioco si fa serio quando ti viene chiesto di lasciare te stesso. È questo che credo interessi alle persone che si incontrano in Missione. Ti chiedono di donarti, di lasciarti andare, di condividere la vita, i sorrisi, i pianti, la musica, un pezzo di pane, una fetta di torta, di condividere ciò che sei in qualunque modo tu sia, con qualunque stato d’animo tu ti possa presentare, ti chiedono di entrare in relazione. Certo, ci sono alcune tue cose che potranno anche essergli utili, ma è di te che hanno davvero bisogno, della tua persona, con i tuoi difetti e i tuoi schemi mentali un po’ rigidi. Va bene così, non ti preoccupare, l’importante è che tu ci sia. È questa relazione che porta vita nei volti delle persone che incontri in Missione. È Gesù che ha vissuto in me nell’incontro con la gente, è Gesù che ha accarezzato volti stanchi attraverso le mie mani, abbracciato corpi troppo fragili, fatto fare le giravolte ai bambini e tentato di cantare le canzoni con le ragazze, forse a volte stonando un po’. È Gesù la prima relazione da cui ho ricevuto vita e senza la quale non sarei stata capace di muovermi nemmeno di un passo.

Ma in fondo che cosa c’entra la vita di queste persone con te? Con te che vivi tranquillo la tua quotidianità a migliaia di km di distanza, con gli occhi fissi sulle tue cose, con le tue solite preoccupazioni e i tuoi sogni forse un po’ troppo piccoli, di cui provi ad accontentarti?

La Missione in fondo non è sempre facile, questo va detto. Ci sono momenti di sconforto in cui ti chiedi come cavolo ti è venuto in mente di venire fino a qua quando potevi startene comodo tra le tue mura di casa. Allora perché dovresti rinunciare a qualcosa e fare sacrifici per partire verso una terra lontana, per andare a incontrare persone con cui ti sembra di non avere nulla in comune?

Forse non ho una risposta valida, perlomeno non nella teoria. So solo che io l’ho fatto e che lo rifarei da capo altre mille volte. Rifarei le valigie anche subito se sapessi che è quello che il Signore vuole da me oggi. Sì, perché la Missione non è rinuncia, non è sacrificio, è solo allargare le braccia per accogliere quello che gli altri hanno da darti.

In Missione ho pianto due volte: il primo giorno e l’ultimo. La prima sera in camera da sola quando mi sono resa conto della follia che avevo fatto, pensando che non sarei mai sopravvissuta due mesi così. E poi gli ultimi istanti prima della partenza, quelli in cui inizi a realizzare la Bellezza ricevuta.

È vero che la Missione è sempre, non inizia e finisce con un viaggio ma è nei luoghi della quotidianità, ma è anche vero che per scoprirlo a volte bisogna partire, per poi tornare a vivere in modo nuovo. Quindi quello che vorrei dirti oggi è che se, leggendo queste righe, ti avesse anche solo sfiorato il pensiero che forse un’esperienza in terra di Missione potrebbe arricchire la tua vita in maniera straordinaria, aprire i tuoi orizzonti e farti sognare in grande, ti prego di chiedere a Dio il coraggio di partire e di donarti questa possibilità, perché questo porterebbe alla tua vita una ricchezza incredibile.

E se qualcuno si sta ancora chiedendo che fine abbiano fatto i tacchini, posso dirvi con grande soddisfazione che due giorni fa sono passata in una stradina con un tacchino da una parte e uno dall’altra. Ho chiuso gli occhi e qualcuno mi ha preso per mano e ho scoperto che insieme si va più lontano.
Un abbraccio, ancora per poche ore, dall’Uganda.
Martina