Certificato di garanzia della vita e del messaggio di san D. Comboni. Una breve biografia.

Quando ci incontriamo con una persona che per qualche ragione si impone alla nostra attenzione, nasce subito in noi il desiderio di domandarle chi è, da dove viene, che cosa fa e come è arrivata ad essere la persona che è. La rivelazione della sua origine e del suo curriculum vitae costituisce il certificato di garanzia della sua vita e del suo messaggio, che ci apre la via ad un incontro fecondo con lei.

Certamente ogni missionario comboniano è desideroso di avere in mano il certificato di garanzia della vita e del messaggio di Daniele Comboni, capostipite della Famiglia Comboniana che proprio da lui prende il nome e l’identità.

Un modo per soddisfare questo desiderio, è mettersi davanti a san Daniele Comboni, fargli queste domande e poi ascoltare la sua risposta nel proprio cuore, ricordando e riflettendo su quello che ognuno ha visto, ascoltato e letto circa la sua persona, comparandolo con i ricordi della propria storia personale, con la storia dell’Istituto nel suo insieme e di qualche missionario comboniano in particolare, e con le attuali situazioni che si verificano nel mondo e nella Chiesa. Può nascere un dialogo interessante e fruttuoso.

Personalmente ho posto queste domande a Comboni varie volte e in varie occasioni, soprattutto nei soggiorni a Limone nella sua casa natale.

Mi sembra di aver ascoltato e di continuare ad ascoltare un Comboni molto vicino a me, che mi parla di realtà che mi riguardano e mi aiutano ad approfondire il senso della mia storia personale alla luce della fede missionaria che egli mi narra. Tra i tanti frutti di questo dialogo, il primo è proprio quello di avermi fatto percepire che l’esperienza di fede che ci è data, può essere narrata e diventare significativa anche per gli altri, come quella del Comboni lo è per me. Saper ascoltare l’esperienza di fede di chi ci ha preceduto e saper narrare la propria è il primo passo del servizio missionario all’interno della comunità e davanti agli uomini e donne di oggi.

 Da dove vengo?

 1. Vengo da Limone

Vengo da una località, a circa due chilometri dal centro di «Limone sul Garda», chiamata Tesöl, diminutivo di «tesa», letteralmente «luogo dove si tendono le reti per gli uccelli»; qui ho trascorso la mia fanciullezza e ho cominciato a preparare quelle mie reti che avrei teso verso altri orizzonti.

Quanto a Limone, è un paese situato sull’estremo lembo della riviera bresciana del lago in un territorio a forma di quadrilatero, bagnato dal lago e circondato da alte montagne. Il nome si può interpretare in vari modi: potrebbe derivare da un'antica voce "limo", "lemos", cioè olmo oppure dal latino "limes", frontiera, tra il bresciano e la giurisdizione del vescovo di Trento. Ad ogni modo il suo nome è comunemente connesso ai frutti di limoni che venivano coltivati nei “giardini” o “limonaie”, cioè in serre preparate in modo da proteggere gli agrumi dal rigore dell’inverno.

Se hai già visitato questo posto, certamente sei rimasto colpito dalle moderne strutture alberghiere, che ospitano per tre quarti dell'anno migliaia di turisti, provenienti da ogni parte del mondo; ma certamente sei rimasto attratto anche dal profumo di antico che emana dalle viuzze impervie e dagli anditi seminascosti del centro storico e dalle limonaie, che alzano al cielo i resti delle loro colonne come braccia scheletrite, come richiamo di avvenimenti di altri tempi che parlano ancora oggi, perchè ti danno testimonianza di valori che rimangono perenni tra gli uomini.

Quando venni alla luce il 15 marzo 1831, Limone era completamente diverso; era un paese povero di poche centinaia di abitanti, circa 500, isolato dal resto del mondo, non raggiungibile per comode vie di terra, ma solo attraverso sentieri sassosi che calavano dalle montagne retrostanti[1]; chi voleva raggiungere Limone in poco tempo doveva farlo in barca, talvolta rischiando i pericoli del lago in burrasca.

Le autorità di Venezia, che dal 1426 al 1797 estendeva il suo dominio fin qui, per secoli lo hanno riconosciuto come il paese più povero della Riviera. Tale rimase durante il periodo in cui Francesi e Austriaci si contesero e si alternarono nella dominazione della Riviera e dopo che l’impero Austro-Ungarico, nel 1815, vi si insediò stabilmente; tale era quando successivamente, nel 1859, cominciò ad appartenere al regno di Italia.

Per me, l’essere nato come suddito dell’impero Austro-Ungarico e divenuto poi cittadino italiano, è stata una circostanza favorevole, perchè mi apriva ad orizzonti che si estendevano oltre l’angusto spazio in cui era rinchiuso Limone. A questo mi aiutava anche la visione del lago che, solcato continuamente da imbarcazioni di vario genere, mi invitava a guardare lontano e a sognare terre sconosciute….

La gente, tra il via vai dei dominatori, viveva protesa alla sopravvivenza, ma disposta a fare ogni sforzo per migliorare le proprie condizioni. Fu così che ha imparato l’arte della pesca, tramandandosi gelosamente ogni segreto da padre in figlio; con tenacia seppe strappare la terra alla montagna e si distinse per la coltivazione degli olivi e dei limoni. Inoltre seppe far fiorire attività varie di artigianato, manifatture e di piccole industrie come le cartiere.

Era così Limone nell’Ottocento.

I Comboni vi giunsero casualmente verso il 1818, quando mio zio Giuseppe e mio papà Luigi migrarono da Bogliaco, frazione di Gargnano, che occupa una posizione centrale nella riviera bresciana, nell’Alto Garda, a sud di Limone. Si stabilirono nella limonaia del Tesöl, alle dipendenze di una ricca famiglia della zona. In seguito la proprietà del sito è passata ad altri padroni e lo zio Giuseppe prese altre strade. A servizio del nuovo proprietario della limonaia rimase mio papà, che divenne così il “giardiniere” del Tesöl, cioè contadino dedito alla coltivazione dei limoni e degli ulivi circostanti. Fu allora che sposò mia mamma, Domenica Pace, figlia di un lavoratore in una cartiera di Limone, anche lui immigrato di Magasa, paesino che faceva parte del Trentino e quindi dell’impero Austro-Ungarico. Fu un matrimonio tra emigrati, messi in movimento dalla povertà che poi li fece incontrare.

La limonaia del Tesöl era una come le altre, ma posta in zona montuosa, appoggiata alle rocce impressionanti di una montagna sovrastante. I miei genitori trovarono alloggio nella modesta cassetta, posta ai fianchi della stessa limonaia.

La casa dove sono nato, lontana dall'abitato, in una frazione isolata di un paese altrettanto isolato, è paragonabile alla grotta di Betlemme[2]. In questa casa, circondata da luoghi agresti dominati da prati e da campi di olivi, mi sono inoltrato nell’avventura della vita, sostenuto dalle cure amorevoli di papà Luigi, “giardiniere”, e di mamma Domenica, “casalinga”, soprannominata Nina, aiutandoli nei loro lavori e giocando con gli amici.

Il richiamo a Betlemme non è dovuto alle sole condizioni materiali dell’abitazione; in casa mia, in effetti, si respirava l’aria evangelica della grotta dei pastori, e anche della casa di Nazaret. Con papà Luigi e mamma Nina legatissimi a me, il quarto di otto figli, morti tutti quasi in tenera età, formavamo una famiglia unita, ricca di fede e valori umani; vivevamo occupati nei vari lavori propri dei contadini, radicati nella confidenza in Dio e nella sua Provvidenza.

Papà Luigi era ben dentro la cultura contadina del tempo, amava la musica, tanto che fu uno dei fondatori della banda musicale del paese, e viveva una vita spirituale popolare molto superiore alla media della gente. Mia mamma era una “casalinga” che si distingueva per la sua delicatezza e la sua religiosità, che condivideva con mio padre.

La formazione spirituale ricevuta in casa è frutto di questa sintonia spirituale tra i miei genitori, che sfociava in un amore familiare fondato su una grande fede in Dio. Nei miei genitori questa fede diviene coinvolgimento nella vocazione missionaria del loro unico figlio, in me certezza della vocazione e unità di misura per verificare la mia fedeltà ad essa; l’esempio del loro sacrificio nel donare il figlio alle missioni diviene in me sprone a dedicarmi con altrettanta generosità ai fratelli dell’Africa.

Nonostante la distanza di due chilometri dalla chiesa parrocchiale, ero assiduo al catechismo, al canto del vespro e al servizio della messa come chierichetto.

Anche se la storia di Limone è una storia di povertà, la chiesa parrocchiale, dedicata a S. Benedetto, è fornita in sovrabbondanza e in qualità di tutto ciò che è necessario per la pratica e lo sviluppo della vita cristiana dei parrocchiani. Ti indico solo ciò che ha parlato di più al mio cuore.

Sull’altare maggiore, c’è una pala che raffigura la deposizione di Gesù, attorniato dalla Madonna, S. Benedetto, S. Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo.

Sul lato sinistro del presbiterio un magnifico dipinto rappresenta l’adorazione dei Magi. Più tardi, il 12 agosto 1877, quando fui consacrato Vescovo nell’artistica Cappella all’interno del palazzo di Propaganda Fide, l’adorazione dei Magi, a cui è dedicata, ha fatto da splendida cornice alla cerimonia e ha corroborato il mio slancio missionario.

L’altare del Crocifisso è sovrastato da una nicchia, nella quale è racchiuso un grande Crocifisso, in legno di bosso, finemente intagliato. La nicchia, durante l’anno, rimaneva chiusa da un quadro che raffigura ancora il Crocifisso circondato da alcuni santi e dalla Vergine. Questo sipario veniva rimosso durante la settimana santa, perché rimanesse esposto sull’altare il grande e suggestivo Crocifisso. Così anch’io ho potuto contemplare varie volte il volto di questo Gesù in croce e ascoltare le ispirazioni che questa contemplazione mi suggeriva. Sta certamente qui l’inizio del mio particolare coinvolgimento nel mistero del Cuore di Gesù, che manifesta il suo grande amore per gli uomini nel Cuore trafitto sulla Croce.

La statua della Madonna delle Grazie, posta al fianco ovest dell’altare del S. Sacramento, era oggetto di grande devozione, specialmente in tempi di particolari calamità. Alla Madonna delle Grazie ricorse anche mia mamma, per ottenere la grazia che non partissi per l’Africa. Ma la Vergine le ispirò di non ostacolarmi nella mia vocazione e le concesse la forza di offrirmi alle missioni.

La chiesa con le sue significative opere d’arte non ispirava solo me, ma era fonte di vitalità per tutta la comunità parrocchiale, che si organizzava soprattutto intorno alle confraternite del S. Sacramento e del Rosario e della scuola della dottrina cristiana. Questa scuola era ben condotta e frequentata sistematicamente, anche da me quando ero in paese.

Posso dirti che la attività missionaria l’ho cominciata proprio a Limone, tra la gente della mia parrocchia, come catechista, predicatore delle missioni al popolo e altri ministeri sacerdotali; da vescovo, ormai visibilmente segnato nella salute dal lavoro apostolico, mi fu concesso di consacrare questa chiesa, in cui fui battezzato e in cui affondano le radici della mia vita di missionario.

Anche se impegnato in una intensa attività apostolica in terre lontane, continuavo a sentirmi radicato e affezionato a Limone, alla mia parrocchia e ai parroci che si sono avvicendati nella sua cura pastorale; perciò ho cercato di mantenermi sempre a contatto con questi miei amici e fratelli limonesi, condividendo con loro la mia vita missionaria per mezzo di lettere e quando mi era possibile con visite personali che mi servivano per ritemprare lo spirito e rimettermi in salute.

Poi, quando ripartivo, si ravvivavano e riportavo con me tante belle memorie: la casetta degli affetti della mia infanzia e dei miei anni giovanili; la chiesa, dove ho cominciato a chiedermi che cosa vuol dire un Dio morto sulla croce per la salvezza del mondo; il limpido lago, le case che vi si specchiano dentro, i monti che gli fanno corona con le loro pareti rocciose quasi verticali, i campi di ulivi, le limonaie disposte a terrazze, sono visioni indelebili che mi narrano la grandezza e la bellezza di Dio e il suo amore eterno per tutte le sue creature; e soprattutto i limonesi, gente amica, tenace, lavoratrice e industriosa, che avevano un posto insostituibile nel mio cuore e con i quali condividevo in modo familiare la realtà africana. Ma ciò non mi impediva di sentire prepotente la nostalgia del Nilo misterioso, della fascinosa foresta africana, dell’ampio deserto, degli Africani schiavi e bisognosi di un sole più fulgido, che non quello del mio amato Limone, e cioè il sole della fede.

Sentivo come nel mio cuore erano accolti con uguale intensità di affetto sia i limonesi che gli africani così che, scrivendo a mio papà dall'Africa nel 1858, potevo dire, «Dite ai Limonesi che li ho abbandonati colla persona, ma giammai collo spirito», con la stessa sincerità con cui nel rientro obbligato dall'Africa nel 1859, per motivi di salute, potevo dire, «Partii per obbedire, ma tra voi africani lasciai il mio cuore».

È questo il frutto del mio coinvolgimento nel mistero del Cuore di Cristo che, cominciato qui a Limone, è divenuto anello e centro di comunione tra me i limonesi e gli africani, e mi ha reso strumento di condivisione di beni spirituali tra la mia chiesa-madre di Limone e la nascente chiesa dell’Africa Centrale.

Una comunione nella carità senza parzialità, ma che non poteva eludere quei palpiti del Cuore di Cristo che mi spingevano a farmi servo dei fratelli più bisognosi della terra in comunione con la stessa comunità di Limone.

Una comunione che dà alla vocazione del missionario la ragione della sua perenne attualità, giacché gli consente di percepirsi sempre più chiaramente come “ponte” tra le Chiese sparse per il mondo tra popoli diversi per narrarsi le une alle altre le opere del Signore, per il reciproco arricchimento, a lode di Dio Padre in Cristo Gesù.

Una comunione, infine, che avrà per approdo l’eternità. Sì, l’eternità è una realtà molto radicata nella mia anima. Me la ricordano con particolare intensità e commozione quei miei 7 fratelli che hanno varcato la sua soglia prematuramente, le 44 croci che segnalano le tombe dei missionari morti durante il viaggio verso la stazione di S. Croce, la morte eroica di don Oliboni, dalle cui labbra di morente raccolsi come testamento l’accorato incitamento a proseguire risolutamente l’opera cominciata, me la ricorda in modo particolare la tomba di mia madre che morì durante la mia prima permanenza in Africa e che visito ogni volta che torno a Limone… Per me l’eternità è divenuta come la cornice naturale e la meta ultima di ogni vita umana, la percepisco come una finestra aperta sul Mistero della “Patria promessa” e al tempo stesso come presenza di Dio-Amore nell’avventura storica, una presenza rigeneratrice dell'uomo oppresso. Per me, allora, l’eternità non è fuga dal presente anche se drammatico, ma orizzonte che dà ad ogni essere umano il senso ultimo della vita e il sapore della dignità ch’egli è stata donata dal suo Creatore e che porta impressa nel suo cuore, e perciò diventa spinta ad un impegno coerente nel cammino della vita.

Credo che sia questo uno dei frutti più significativi maturati nel mio spirito in seguito alle ripetute dolorose visite della morte che ebbero inizio nella mia famiglia. Dal dolore per la scomparsa di persone care, cominciai a sentire di essere chiamato a lavorare per l’eternità, cioè a far presente l'amore ri-generatore di Dio in mezzo agli uomini, soprattutto tra i più poveri specialmente riguardo alla fede, e che io esperimentavo come pregustazione della pienezza di vita nella “Patria trinitaria” in compagnia di coloro che già mi avevano preceduto e di coloro che la Provvidenza mi andava facendo incontrare lungo il pellegrinaggio missionario.

Da quest’esperienza comincia a nascere la mia convinzione che più tardi ho espresso nel Cap. X delle Regole del 1871, dove affermo che il missionario lavora per l’eternità e che, perdendo di vista l’eternità, la sua vocazione resta sprovvista dello slancio divino della sua origine ed del suo significato ultimo, per cui il missionario stesso è il primo a esporsi ad una specie di vuoto e isolamento intollerabili. Certamente, lavorando per l'eternità, il missionario non pretende evadere dalla realtà del presente per dedicarsi alla missione con l’unico scopo di comprare la felicità eterna per se stesso e per gli altri, ma lavora tenendo i piedi per terra, aperto alle necessità del mondo nell’ottica di Dio, Amore “fontale” e finale di ogni vita umana, mirando quindi ad un futuro con speranza di resurrezione a partire dalle situazioni di morte di questa terra.

Per completare il profilo della mia identità di limonese, devo dirti ancora che, avendo manifestato propensione allo studio, i miei genitori mi fecero dare lezioni private a pagamento, in seguito mi inviarono a Verona presso una famiglia di limonesi. Qui manifestai l’intenzione di farmi prete e fui iscritto, come esterno, al Seminario diocesano di Verona, ma la povertà dei miei genitori non mi permise di continuare. Allora mi venne incontro la mano della Provvidenza, aprendomi le porte dell’Istituto Mazza, che raccoglieva giovani poveri per prepararli alla scelta di una professione nel mondo, del sacerdozio o della vita religiosa.

Come vedi vengo da una storia di emigrati e di povertà familiare ed ambientale. E fu proprio questa mia situazione di povertà, vissuta con operosità e fiducia nella Provvidenza, che mi portò all’Istituto Mazza. Qui sentì il richiamo di altri più poveri di me, tanto che la povertà estrema della Nigrizia divenne la passione della mia vita.

Ma voglio riprendere la storia dei Comboni, arrivati come emigrati a Limone, perché ti fa capire meglio il significato della mia partenza per Verona e per l’Africa. Ti ho accennato che a un certo punto mio papà rimase come il “giardiniere” del Tesöl, mentre suo fratello Giuseppe prese altre strade.

Per comprendere questo evento all’interno del mio gruppo familiare, devo dirti che nell’Ottocento si tentò anche a Limone la via industriale. E ciò avvenne proprio ad opera delle famiglie Comboni che nel frattempo si erano ampliate in paese, e alcune di esse riuscirono a raggiungere una discreta fortuna. I Comboni infatti hanno impiantato una filanda, una fabbrica di cappelli di lana, una fabbrica di magnesia.

Provenendo da una situazione familiare disagevole, sarebbe stato logico e non mi sarebbe stato difficile tentare con i miei parenti la scalata al benessere economico e al successo sociale. Ma l’ambiente che respiravo in casa e la formazione che andavo ricevendo all’Istituto Mazza, mi hanno spinto a sviluppare le mie capacità umane e spirituali in altra direzione, aprendomi cioè alla vocazione missionaria in favore dell’Africa Centrale. Sono consapevole quindi di essere una evidente realizzazione della Parola di Dio, quando dice che a Lui niente è impossibile, così che quando decide di intervenire e trova un cuore disponibile avvengono nella storia cose nuove e grandi…

Ti faccio questo accenno per invitarti a riflettere alla luce della mia storia su quelle che voi chiamate sfide della nuova geografia vocazionale, per cui le comunità dell’Istituto saranno sempre più internazionali e multi-culturali con la possibilità che sorgano difficoltà di vario genere. La mia esperienza personale mi suggerisce di dirti che sarà l’incremento di una profonda vita spirituale a livello personale e comunitario che potrà smuovere dal di dentro la storia personale di ognuno verso un’identità condivisa pur nella diversità di modi di essere e di comportamenti, che dia vita ad un gruppo di persone, in grado di mettere in moto una vita in fraternità e un piano di azione evangelizzatrice nel mondo di oggi.

Infine ti invito a benedire e lodare con me il Signore, perché tutto quello che Egli fa è veramente buono![3]

Dio solo, infatti, poteva scoprire un paesino così inaccessibile e rintracciare in esso questo bambino povero, per sceglierlo come suo apostolo e rivestirlo dell’Ordine episcopale: nato nelle grotte del Tesöl, mi ha scelto per evangelizzare la grande Africa; il suo sguardo si è posato proprio su di me, figlio di poveri ed emigrati, per muovere i regnanti ad ascoltare gli oppressi; parrocchiano di una parrocchia insignificante, per illuminare Papa e Vescovi su problemi universali della Chiesa!

Confrontando le mie vicende missionarie con le mie umili origini di “un povero figlio di un giardiniere di Limone”, un senso di stupore ha sempre pervaso la mia anima; Dio mi ha sorpreso nei suoi disegni e mi muove a eterna riconoscenza[4].

E non ti dimenticare che Dio sorprende ancora oggi. Egli sceglie giusto e prepara degnamente i suoi eletti, quando sotto la guida della Chiesa, imparano a fare emergere e a sviluppare le qualità umane e spirituali di cui sono dotate, per crescere come cristiani che sanno rispondere con dedizione totale nel quotidiano della vita alla vocazione ricevuta, di cui sono fermamente convinti.

Allora l’anelito missionario di questi eletti sarà straordinario, perché non scaturisce da forze e calcoli umani indirizzati alla pura ricerca di autoaffermazione, bensì da una fede illimitata, da una speranza aperta alle onnipotenti capacità di Dio, da un amore obbediente a Dio ed eroico verso i fratelli più bisognosi e abbandonati.

Allora faranno della loro vocazione una vita di spirito e di fede, che sarà lievito delle loro doti umane e dei loro valori culturali che si portano come baglio appresso, e quindi delle loro scelte nel quotidiano della vita. Saranno così veri uomini di Dio e uomini per gli uomini, uomini coraggiosi e audaci nell'affrontare le sfide missionarie del loro tempo, mossi dalla pura vista del loro Dio, consapevoli che la vita di un missionario si regge “col tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo” e che la sua azione deve avere carattere ecclesiale, risoluti a fare ciascuno la sua parte con fiducia grande che nella Chiesa opera lo Spirito Santo, nonostante e attraverso i limiti degli uomini.

 2. Dalla certezza della mia vocazione

Vengo dalla certezza della mia vocazione a essere Apostolo della Nigrizia; vocazione che ho avvertito come desiderio nella mia infanzia e che ho coltivato nell ‘Istituto Mazza fino alla decisione definitiva della mia totale donazione a Dio per la rigenerazione della Nigrizia. Sta qui il segreto della tenacia con la quale ho vissuto la consacrazione alla causa della Nigrizia e la costanza con la quale son rimasto fedele a questo ideale contro tutte le difficoltà fino alla morte.

Vengo da una risposta vocazionale purificata e fortificata nel crogiolo del deserto. In effetti, non c’è risposta alla vocazione senza sacrificio. Così è avvenuto che ho lasciato tutto, mi son lasciato possedere dal Tutto e mi sono consegnato totalmente a Lui per l’opera a cui mi chiamava. Ho vissuto la vocazione come un pellegrinaggio, come un passare a un’altra sponda, in cui Dio mi ha fatto “sposo” e liberatore della Nigrizia.

 3. Sì, vengo dal deserto.

Questa realtà mi è molto familiare sia nella sua dimensione fisico-geografica sia spirituale.

Vengo, in fatti, dagli interminabili viaggi nel deserto, che ho dovuto attraversare ben 7 volte, per arrivare al cuore dell’Africa. Quei viaggi erano veramente difficili. Infatti, la levata dalle stuoie adagiate sulla sabbia era alle due dopo mezzanotte al grido del cammelliere e, in 5 minuti, bisognava essere in groppa alle cavalcature, che frustrate, partivano a un trotto singolare che faceva dondolare il viaggiatore in modo sfibrante e opprimente. Solo verso le 11 ci si fermava all’ombra di qualche masso e alle 15 si ripartiva per fermarsi a tarda sera. La voglia di mangiare, con lo stomaco sconquassato, spariva de tutto. Si sarebbe bevuto un po’ di acqua fresca, ma c’era solo acqua calda, puzzolente e nauseabonda, perché guastatasi nelle ghirbe di pelle di capra, col sole che picchiava a 55 e 60 gradi di calore.

La grande superficie del deserto da Korosko a Berber è penetrata nella mia carne e nel mio spirito di “votato” alla Nigrizia. È un deserto “vasto” e “di orrido aspetto”, ma anche salutare, perché nella sua solitudine, nel silenzio, nello spazio senza fine, sotto un cielo terso, si solleva e si fortifica l’anima. Attraverso questo deserto ho camminato cercando quell’altra sponda dove Dio mi inviava, popolata da volti sfigurati di fratelli miei, sostenuto da Dio stesso, che col suo Volto paterno mi sorrideva e mi tendeva le braccia dall’Alto dell’Eternità…

Così il deserto delle grandi estensioni dell’Africa centrale è divenuto parte integrante della mia vita, simbolo del mio deserto interiore, cioè del mio “impeto” missionario purificato attraverso la estesa, arida e oscura esperienza del deserto della mia anima.

Ho vissuto il deserto della mia anima in modo molto intenso e perfino drammatico nelle varie tappe del mio itinerario missionario, culminato con la morte sulla breccia.

Il deserto interiore, infatti, è l’anima sola, vuota, in aridità e angustia… È l’anima mia innamorata-consegnata e senza comprensione, senza compagnia, senza acqua, senza vita… È la mia situazione di uomo “solo” disposto a dare mille vite per l’amata Nigrizia; è l’esperienza di una stretta al cuore provocata dall’impeto della Carità sgorgata dal Cuore di Gesù Trafitto sul Gólgota, per cui vengo a trovarmi distaccato da tutto e lontano da tutti e allo stesso tempo macinato come chicco di frumento per essere con Gesù pane che dia vita alla Nigrizia….

 4. Vengo dalla mia interiorità, dove abita un forte sentimento di Dio

Non sono entrato nel deserto in cerca di avventure esotiche o di tesori nascosti, ma disposto a perdere tutte le sicurezze umane e desideroso di lasciarmi conquistare e amare da Dio solo….

Per me, Dio, solo Dio, è la ragione unica del mio essere missionario. La sua presenza in me è il mio Amore, la mia Ricchezza, la mia Libertà. La mia unica felicità è sentirmi continuamente abitato da questa Presenza Amorosa, che dà calore alla mia esistenza, anche se è di notte; la mia unica felicità è vivere per la gloria di questo Dio che si fa compagno nel viaggio della mia vita, accettando che si serva di me per la felicità degli Africani.

Sì, mi è rimasto solo LUI, unica certezza e garanzia del mio cammino missionario. Forse sei abituato a pensarmi come un uomo preoccupato per le cose di Dio: la Nigrizia da rigenerare, i viaggi di animazione missionaria, le fondazioni degli Istituti, i complicati problemi della gestione della Missione… In realtà sono appassionatamente occupato nelle cose di Dio, ma mai preoccupato; vivo, infatti, da innamorato di Dio, da appassionato ricercatore del suo Volto e del compimento fedele della sua volontà, per cui la mia prima occupazione è il tratto con Lui. È da Lui che prendo inspirazione e forza per gli affari della Missione. Ho cominciato fin dalla mia infanzia a cercare unicamente la volontà di questo Dio che mi ha “consacrato” alle missioni dell’Africa; sono vissuto e vivo sempre disposto a sacrificare tutto pur di compierla e con il proposito di vivere e morire compiendo unicamente questa volontà divina, sostenuto dalla certezza che compierla è l’unica consolazione nelle prove.

Nella mia sete di Infinito, la Missione mi appare in tutta la sua chiarezza come dono di Dio. Un Dio che ho cercato e trovato, ma che mi ha amato e cercato per primo e che, mentre mi salva, mi sceglie come strumento di questa stessa salvezza per i miei fratelli più lontani da essa. Ho imparato così a cogliere la mia vita tra le mani con gratitudine e gioia filiale e a offrirla in dono a questo Dio della vita per la rigenerazione dei miei fratelli più poveri ed oppressi.

La mia dedicazione totale alla causa della rigenerazione dell’Africa Centrale è nata nel “deserto” della mia anima, fatta ascolto e abbandono nelle mani della Provvidenza divina, disposta a tutto, perché appartiene definitivamente a Dio, desiderosa di narrare e testimoniare questa grande Storia d’Amore, fonte e destino ultimo di ogni vita umana.

Vivo la mia avventura missionaria coinvolto in questa Storia d’Amore: l’amore di Dio in me e per me mi ha consacrato alla Nigrizia, che ho cominciato ad amare con questo amore di Dio; e l’ho amata sempre più, fino all’estremo delle mie forze, nella misura in cui crescevo in questo amore; e crescevo, perché il bisogno di salvezza della mia amata Nigrizia mi spingeva sempre più verso l’Amore provvidente e rigeneratore di Dio.

5. Vengo dal Cuore di Cristo

Percorrendo il deserto della mia anima ho trovato un “pozzo”. Sì, perché anche se nel deserto non c’è altro che arena, anche se non vedi e non senti niente, si trova sempre nascosto da qualche parte un pozzo, dove puoi bere e riprendere le forze (cf Gen 21, 8-19).

Questo pozzo è il Cuore Trafitto di Gesù, Buon Pastore.

Inoltrandomi nel mio deserto sazio la mia sete bevendo in abbondanza da questo “pozzo”, che cammina con me.

L’acqua che scaturisce da esso, è quella “Virtù divina” che, penetrando nel mio mondo interiore, mi spinge a svilupparlo senza posa. È essa che rende in me sempre più forte il sentimento di Dio e sempre più saldo il legame di solidarietà con la Nigrizia.

È da essa che nasce in me quella vita esteriore esuberante, tenace e coerente che richiama la tua attenzione.

6. Vengo dal deserto della Nigrizia e dalla solidarietà con essa

Il deserto della mia anima si incrocia con il deserto della Nigrizia. In fatti, il deserto affascinante e orribile che dovevo attraversare per raggiungere la Nigrizia, si proietta su di essa come un “buio misterioso” che la avvolge. Un buio che nasce da un intreccio di fenomeni sconcertanti e che attanaglia gli Africani in una vicenda di “povertà” radicale” di oltre quaranta secoli, tenendoli lontani dai benefici del progresso umano e della fede. È una povertà in tutte le direzioni: essa tocca l’ambiente naturale, fascinante e nello steso tempo ostile alla vita e alla missione, le anime, i corpi e il tessuto sociale, causando l’indole avvilita dei neri, “su cui pare che ancora pesi tremendo l’anatema di Cam”. In una parola, è una povertà che, come il deserto, scava un vuoto orribile tutto all’intorno ed in mezzo alla Nigrizia e la rende una viva immagine di un’anima abbandonata da Dio.

Tuttavia la meravigliosa aurora del deserto che imporpora come un incendio d’oro il cielo, i monti e il piano; il sole che puntualmente si alza maestoso e infuoca l’immenso vuoto del deserto, sono nel mio animo segni della presenza provvidente di Dio in tutti i luoghi, anche nel regno della morte. Questa presenza mi spinge a entrare e mi sostiene in questo “buio misterioso” della Nigrizia, per far causa comune con i suoi figli e figlie, nella certezza della loro rigenerazione.

Posso dirti allora che vengo da una vita vissuta in solidarietà con i popoli poveri e oppressi della Nigrizia; unito e in comunione con questi miei fratelli concreti. Vengo da questa vita di dimenticati e marginati della storia, che ancora oggi la società ricorda solo quando fanno notizia per qualche nuova disgrazia che li colpisce o quando trova qualche nuovo modo per sfruttarli.

 7. Vengo dalla comunione con la Trinità

Proseguendo il cammino del deserto della mia anima, coinvolto in questo “buio misterioso” che ricopre la Nigrizia e sostenuto dall’acqua che sgorga dal Cuore di Cristo, a un certo momento mi trovai sul Monte del Signore.

Non so bene se fosse il monte Oreb, o quello della Trasfigurazione o del Calvario. Forse tutti e tre questi monti per una volta si sono ravvicinati e mi hanno stretto assieme nel loro abbraccio, comunicandomi qualcosa del Mistero di Dio di cui ciascuno di essi è testimone. Il fatto si verificò sul colle del Vaticano, mentre pregavo sulla tomba di S. Pietro, contemplando il Cuore di Gesù in occasione della beatificazione di Margherita Maria Alaquoque.

Si tratta di un momento di preghiera, nel quale mi vengono dall’Alto i singoli punti del Piano per la rigenerazione della Nigrizia, che imprimono una svolta definitiva e configurano il resto della mia vita missionaria. In esso è presente tutta la Sacrosanta Trinità. Di fatto, una intensa luce “dall’Alto” illumina nel mio spirito la comunione con la Trinità da me vissuta fino a questo momento. Comincio a esperimentare la comunione con la Trinità in un modo nuovo, in quanto la percepisco pellegrina nel cammino degli uomini... Questa percezione che inonda il mio spirito, è la vena nascosta che dà ragione e forma alla mia “passione” per la Nigrizia, per cui posso dirti con verità che vengo dal cuore della Trinità.

Vengo dal coinvolgimento nel dinamismo dello Spirito Santo, “Virtù divina”, che mi rivela nel Cuore Trafitto di Gesù sulla Croce il segno e lo strumento perenne dell’amore salvifico che eternamente sgorga dal cuore del Padre, e la via della solidarietà con la vita di tutti gli uomini. Vengo così introdotto nell’inesauribile dialogo e comunione tra il Padre che ama tanto il mondo da decidere di inviare il Figlio, e il Figlio che risponde con la sua obbediente consegna redentrice fino alla morte in Croce e mi merita il dono di questa stessa “Virtù divina” come fiamma di Carità che sgorga dal suo Cuore Trafitto.

All’essere coinvolto nell’azione salvifica della Trinità mediante questa fiamma di Carità, vengo tratto fuori dal “buio misterioso” che ricopre l’Africa e dalla paura del passato in cui “rischi di ogni genere e scogli insormontabili sgominarono le forze e gettarono lo sgomento” tra le file missionarie. La Nigrizia si trasfigura ora davanti al mio sguardo: comincio a vederla ”come una miriade infinita di fratelli aventi un comun Padre su in cielo”. L’abbraccio di Dio Padre lo esperimento segnato dalla sofferenza di questi suoi figli africani, e nel bisognoso africano scopro un fratello, che ancora non usufruisce della benedizione del Padre che scaturisce dalla Croce…, per cui ha bisogno di essere incamminato verso di Lui.

Sotto l’influsso dello Spirito Santo esperimentato come fiamma di Carità che sgorga dal costato del Crocifisso sul Gólgota, sento che i palpiti del mio cuore si fondono con quelli di Gesù e si accelerano. In questa sintonia di cuori percepisco come il Padre, attraverso il suo Figlio incarnato, morto e risorto, ascolta il grido di quella miriade di figli suoi che vivono in Africa ancor “incurvati e gementi sotto il giogo di Satana” ed entra con tutto il suo essere nella loro storia e nel loro dolore.

Questa Carità mi fa sentire figlio amato dal “comun Padre” che si prende cura di me allo stesso modo che dei miei fratelli più abbandonati fino alla consegna del suo proprio Figlio; è questa Carità che mi trasporta e mi spinge a stringerli tra la braccia e dar loro il bacio di pace e di amore; mi spinge, cioè, ad assumere la loro storia e il loro dolore divenendone parte e facendo “causa comune con loro”, anche con il rischio della mia vita.

È un incontro con dei fratelli in cui si cela il volto di Gesù nello sconcertante mistero della sua identificazione con gli esclusi della storia. Nei miei fratelli africani oppressi mi si rivela il volto dolorante e sfigurato del Crocifisso, che fissa il suo sguardo su di me e mi chiama a evangelizzarli e a lavorare per il loro progresso e per la liberazione dalla loro schiavitù. Nello stesso tempo continuo a tenere lo sguardo fisso sul Crocifisso, per “capire sempre meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime”.

Sono i fratelli che ricevo dall’azione salvifica della Trinità, ai quali posso finalmente comunicare l’evento salvifico del Trafitto–Risorto, che rompe il loro esilio e li mette sul cammino della libertà, pregustazione della Patria Trinitaria. Così sarà piena la loro e la mia gioia.

 8. Vengo dalla Chiesa, “mia signora e madre”

Come cristiano, come missionario e infine da Vescovo sono figlio della Chiesa, sono “uomo di Chiesa”. Da essa ho ricevuto tutto: in essa ho conosciuto il Signore Gesù, “che ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa” (Ef 5,26); in essa e per mezzo di essa ho ricevuto e vivo la mia vocazione all’apostolato missionario in Africa, per cui sono orgoglioso di essere Missionario Apostolico.

Alla scuola di don Nicola Mazza ho scoperto le sue dimensioni fondamentali: la santità, la ricerca della verità e lo slancio missionario. Mi convinsi così che appartiene in pienezza alla Chiesa solo chi gioca la sua vita su due opzioni: tendere alla santità e servire attraverso la scelta vocazionale. Non mi sfuggì il fatto che non tutti nella Chiesa entrano in profondità nel suo Mistero e quindi non sono all’altezza dei suoi alti ideali. Ciò contribuì a rendere sempre più consapevole la mia appartenenza alla Chiesa e a comprendere che devo amarla così com’è e a vivere in essa spiritualmente ai piedi della Croce, che è il “sigillo delle opere di Dio” (S. 994).

Questo atteggiamento mi ha dato la forza della fedeltà alla Chiesa. Ho superato le prove dell’incomprensione e perfino della calunnia, tenendo lo sguardo fisso in Gesù Crocifisso, per imparare ad amare con Lui e con il suo Cuore il popolo che Egli steso mi affidava attraverso la sua Chiesa. Ma mi ha dato anche la spinta a praticare un’obbedienza all’insegna dell’intelligenza e della creatività, facendo così un uso maturo della libertà personale nella e con la Chiesa.

Vivo l’appartenenza alla Chiesa come un grande dono di Dio, che non è paragonabile ad alcun altro interesse. Senza di essa non sono me stesso. Essa è “mia signora e madre” (S 7001). Da essa mi sento amato e accolto. Per essa nutro rispetto, amore e lealtà nel cercare la verità; in comunione e partecipazione con essa desidero realizzare il Piano venuto dall’Alto. Sono intimamente convinto che io stesso, la missione, i miei progetti sono garantiti solamente nella e dalla Chiesa. Perciò alla sua autorità ho venduto la mia volontà, la mia vita e tutto me stesso, e in essa scorgo la mano provvidente di Dio che mi conduce lungo il sentiero del mio apostolato missionario. Amo la Chiesa con tutto me stesso, non per calcoli umani ma per espressa volontà di Gesù Cristo, che ad essa ha lasciato in deposito il Vangelo che mi ha mandato ad annunciare.

 9. Vengo dall’incontro con la Vergine Maria

Vengo dall’incontro e in compagnia di Maria, la madre del Signore, “volto materno di Dio”, presenza ineffabile di un amore che si dona costantemente. Ella ha un posto privilegiato nella mia vita, perché è Madre degli apostoli, Prezioso conforto del Missionario sul quale veglia per difenderlo dai pericoli, Stella Mattutina del missionario che si interna nel cuore dell’Africa, Maestra nei dubbi, Salute e fortezza nelle infermità, Guida nei viaggi, Luce degli erranti, Porto dei pericolanti, Madre della Consolazione.

È la pietosa Regina e la Madre amorosa della Nigrizia, la madre degli Africani, dei crocifissi di ieri e di oggi sul Gólgota del mondo, dove li riceve come figli stando ritta accanto al Figlio Crocifisso. Con la sua potente intercessione li libererà dalla sfortuna e li tufferà nelle gioie della fede, della speranza e della carità (Cf S 1644).

La vivo come l’Immacolata, la “donna senza peccato, la “tutta santa”, la “tutta pura”, “prodigio della grazia di Dio” e “miracolo dell’onnipotenza divina”, “santuario della Trinità” e immagine ideale dell’uomo e della donna, segnale della vita vera, “terra promessa” alla Nigrizia; quella Nigrizia che si profila al mio sguardo smarrita in un “buio misterioso” che la rende “una viva immagine della desolazione di un’anima abbandonata da Dio”, ma che, accogliendo Cristo, sarà nella Chiesa la “perla bruna”, che brilla incastonata nel diadema dell’Immacolata.

Vivendo in sua compagnia, Maria – Figlia prediletta dell’Eterno Padre, domicilio dell’Eterno Figlio, abitazione ineffabile dell’Eterno Divino Spirito (S 4003) - mi spiega che cosa è essere Tempio di Dio, cella interiore dove si vive senza interruzione la comunione con le Persone divine della Trinità, casa dove il dialogo con Dio e la preghiera per l’avvento del suo Regno è incessante.

La compagnia di Maria, la vergine del “Sì”, la fedele Serva del Signore che tiene sempre aperto il Cuore di Gesù, tiene aperto anche il mio, riversando in esso il desiderio dell’ascolto della Parola, la pedagogia del servizio, della pietra nascosta che forse mai verrà alla luce, la passione di far causa comune con gli Africani, in un atteggiamento di rispetto e di fede in essi, che mi metta a servizio della loro capacità di essere soggetti della propria rigenerazione.

La compagnia di Maria mi rivela ancora la dignità e l’abilità della donna e l’indispensabilità del suo ruolo nella mia ardua missione. Attribuisco alla presenza di Maria nella mia vita il fatto che sono io il primo a far concorrere nell’apostolato dell’Africa Centrale “l’onnipotente ministero della donna del Vangelo, e della Suora della Carità, che è lo scudo, la forza, e la garanzia del ministero del Missionario” (S 5284).

L’incontro con Maria mi ricorda come l’inizio della mia vita cristiana è legato ai gesti e alla pietà di una donna semplice, quando “piccino imparava sulle ginocchia della mia madre a fare il segno della croce” (Cf S 342). Da questa esperienza che mi lega a Maria attraverso mia mamma, nasce la mia convinzione della necessità della formazione della donna africana, perché da essa dipende in gran parte la rigenerazione della grande famiglia dell’Africa.

Ecco i centri vitali da cui provengo: vengo da Dio e da tutto ciò che ho ricevuto da Lui in dono per la mia pienezza umana e la realizzazione della missione a cui mi chiama. Quando parlo o scrivo mi riferisco sempre e molto a Lui e ho tra mano numerose e grandi opere richieste per la realizzazione della Missione dell’Africa Centrale, dove tanti figli suoi e fratelli miei vivono ancora spogliati della loro dignità e dimenticati. Tuttavia il desiderio più vivo che ho nel cuore e che voglio trasmettere anche a te, è che la mia stessa vita nella sua totalità sia una parola che parli di Dio, una parola che nasca dal mio tu per tu con Lui!

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Dopo aver ascoltato D. Comboni, prova a rispondere anche tu alla stessa domanda che certamente desidera rivolgerti la gente tra cui svolgi il tuo ministero missionario; anche per te la provenienza sarà il certificato di garanzia dell’autenticità della tua vita e del tuo messaggio.

Ti può servire come motivazione l’affermazione del teologo Karl Rhaner: “Il cristiano di domani sarà un mistico, cioè uno che ha sperimentato qualche cosa, oppure non sarà nulla”.

E un altro autore, A. Hortelano, aggiunge: “Oggi il mondo ha più che mai bisogno di un ritorno alla contemplazione… Il vero profeta della Chiesa futura sarà colui che verrà dal “deserto” come Mosè, Elia, il Battista, Paolo e soprattutto Gesù, carichi di misticismo e di quello splendore particolare che hanno solo gli uomini abituati a parlare a tu per tu con Dio”.

 

 

 


[1] La strada è giunta solo nel 1930

[2] S 111-113

[3] S 7172

[4] Cf. S 642; 981-982; 4680

Carmelo Casile