Venerdì 31 maggio 2024
“È necessario abbandonare ogni forma nostalgica, puntare sulla formazione, prendere coscienza dei tempi nuovi e superare la logica postmoderna del provvisorio”. Le domande tengono la mente inquieta mentre le risposte rischiano di farci addormentare, specialmente quando sono concepite per anestetizzare la fatica del pensare dinanzi alla complessità delle sfide odierne.
Ben venga, allora, il dibattito che sta prendendo corpo in queste settimana. All’irrilevanza cristiana, intesa non tanto in senso sociologico ma come incapacità dei simboli e delle parole cristiane di toccare l’immaginario, di trafiggere il cuore e di segnare la vita dei nostri destinatari, ho voluto di recente dedicare un testo di teologia edito da San Paolo, ritenendo che la domanda già posta da Karl Rahner alcuni decenni or sono, dovrebbe essere messa al centro della riflessione teologica e dell’agire pastorale: come è possibile fare oggi una esperienza del Dio di Gesù Cristo in una società che lo ha messo ai margini? Si tratta di un interrogativo che, però, il cristianesimo deve iniziare a rivolgere a se stesso.
A poco serve, infatti, continuare ad attardarsi su analisi riguardanti il cambiamento d’epoca, la fine della cristianità, il tramonto del cristianesimo sociologico e l’avanzata del secolarismo, se non attiviamo il coraggio di un passo ulteriore che può essere così declinato: se la cultura occidentale non è più ospitale nei confronti dell’annuncio cristiano, è altrettanto vero che il cristianesimo ha smesso da tempo di essere “culturale”, di saper non soltanto ascoltare ma anche interpretare le sfide del contesto, in un dialogo scevro da manie di superiorità morale e da elementi di clericalismo.
Il cristianesimo sembra essere segnato da una sorta di “cultura del declino”. Di recente, a parlarne è stato il presidente della Cei, il cardinale Zuppi, che ha affermato: “Non si può gestire il presente con una cultura del declino, quasi si trattasse solo di mettere insieme forze diminuite, di ridurre spazi ed impegno o d’agoniche chiamate al combattimento”.
La cultura del declino, che ci impedisce di avere linguaggi, proposte e postura per abitare la cultura odierna, si manifesta in molti modi e, accennarne alcuni, significa anche individuare quelli che possono diventare luoghi della ripartenza, se ci dedichiamo ad essi con una appassionata riflessione teologica e pastorale.
Anzitutto, è da segnalare il rischio d’una assuefazione vittimistica alla questione numerica, che genera spesso una reazione frettolosa, mancante di una lungimirante visione ecclesiale e pastorale: così, si uniscono le poche forze rimaste o ci si trincera dietro un atteggiamento difensivo, limitandosi a conservare l’esistente. Forse ci serve invece il coraggio di prendere sul serio la sproporzione esistente tra il modo in cui ancora oggi pensiamo e viviamo la parrocchia ed il numero sempre più ridotto di preti ed operatori pastorali, in un contesto divenuto mobile, plurale, e multiculturale.
Si tratta di una situazione che non lascia spazio ed energie per pensare una “pastorale della soglia”, centrata su un annuncio del Vangelo che possa intercettare i lontani e dialogare con le domande del nostro tempo e con le sfide culturali, magari anche stimolando al dibattito coloro che sono in vario modo impegnati negli spazi pubblici della città, della politica, della società civile.
La questione implica, naturalmente, una riflessione sul ministero ordinato, una nuova lettura dell’istituzione parrocchiale, qualche serio interrogativo sull’attuale configurazione giuridica e sul Diritto canonico, così da immaginare una nuova forma e presenza di Chiesa in dialogo col territorio. Nondimeno, si ha l’impressione che anche riguardo alla proposta, il cristianesimo proceda spesso con linguaggi, formule e prassi che non tengono in conto quanto sia cambiato l’immaginario interiore e concettuale dei nostri contemporanei negli ultimi decenni.
Si può continuare a parlare di salvezza, di felicità, di vita umana, di morte e di risurrezione, ma correndo il rischio di non comunicare più nulla se non si tiene conto dei cambiamenti antropologici, della diversità e pluralità di significati che ciascuno conferisce alla propria esperienza di vita, della ricerca postmoderna di un benessere psico-fisico e spirituale sganciato dalla relazione con Dio, della “fede” nell’intelligenza artificiale.
Le parole dell’evento cristiano, si pensi, per esempio, alla professione di fede nell’ormai vicino anniversario di Nicea, non andrebbero nuovamente tradotte e offerte attraverso una nuova mediazione linguistico-concettuale? Infine, rispetto alle sfide della cultura ed a quelle pastorali, l’impressione è che anche il cristianesimo proceda nel solco postmoderno della logica del provvisorio: manca una visione ed un pensare a lungo termine, si va avanti per singhiozzi e frammenti.
In questo senso, la cultura del declino si esprime nel ripiegamento in forme di religiosità intimiste e, ancor più spesso, in forme devozionistiche che dispensano dalla fatica di pensare e dall’onere di scelte innovative e coraggiose. Lo studioso Sequeri ne ha parlato come “ripiegamento nella pura devozione di gesti ed immagini vagamente connesse al mistero cristiano”, mentre il teologo Righetto ha fatto giustamente riferimento alle “paccottiglie” spirituali che si trovano nelle librerie religiose, generando una sorta di “sottocultura” cattolica.
Di certo, c’è un investimento che manca e, se parliamo di rapporto dialogico con la cultura, l’investimento principale dovrebbe essere quello della formazione. Mentre il secolarismo ha ormai trasformato l’immaginario interiore della vita delle persone, cambiando i simboli attraverso cui interpretano la vita ed abitano il mondo, la cura per la formazione e per la preparazione culturale, biblica e teologica di laici e preti non è ancora assunta come un impegno imprescindibile delle agende pastorali.
Qualche giorno fa, sul tema, è tornato il teologo Giuseppe Lorizio, affermando che il credente non può ignorare, ed anzi deve interpretare ed affrontare una cultura come la nostra che si mostra nella veste di un “politeismo” del sapere e dei valori, in una compagine quanto mai variegata e plurale di visioni. Ed invece, si ritiene che sia più urgente far fronte ai bisogni d’oggi che investire per il domani. E sulla formazione culturale, continua a pesare l’antico e sempre nuovo pregiudizio, secondo cui studiare ed approfondire non serve, perché basta stare vicini alla gente, dir Messa e presiedere qualche atto di devozione.
Il rischio della autoemarginazione del cristianesimo diventa più che concreto, che si tratti di rifugiarsi nostalgicamente nell’idealismo dei bei tempi passati o di chiudersi in forme di cristianesimo moralista e devozionale. Qualcosa può cambiare se e quando avremo il coraggio di rimettere mano - senza timori e senza ideologiche contrapposizioni - a una nuova visione ecclesiale. Ma ciò non avviene continuando a scommettere su una generale visione pastorale, senza la fatica di pensare – e di pensare teologicamente – il futuro del cristianesimo.
Vedi: Essere Chiesa significa avere un’idea di futuro
Francesco Cosentino – Avvenire
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