Polarità nella storia dell’Istituto comboniano. Le tensioni che percorrono la nostra vita

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Lunedì 11 maggio 2020
L’autore di questa riflessione è P. Manuel Augusto Lopes Ferreira
. Le ragioni della scelta del tema – chiarisce il missionario, già superiore generale dei Missionari Comboniani dal 1997 al 2003 – sono fondamentalmente due: “la sensazione che ci siano delle tensioni che riemergono in certi momenti decisivi della nostra storia” e “la sensazione che viviamo in questo inizio di secolo, un momento di svolta, con delle tensioni che emergono e che corrono il rischio di erodere la vita dell’Istituto”. Dopo aver parlato sia di “polarità” sia di “tensioni” nella storia dell’Istituto, dal suo punto di vista, P. Manuel Augusto conclude facendo alcune brevi proposte di “atteggiamenti e vie” concrete per rispondere in modo positivo a queste medesime tensioni. (
Vedi allegato)

POLARITÀ NELLA STORIA DELL’ISTITUTO COMBONIANO:
LE TENSIONI CHE PERCORRONO LA NOSTRA VITA

Introduzione
Cercheremo di chiarire tre cose, come introduzione: la ragione della scelta del tema; indicare il nostro punto di partenza per parlare delle tensioni che percorrono la nostra vita e storia; chiarire qual è la prospettiva che ci guida in questa riflessione.

Ragione della scelta del tema
Abbiamo una duplice ragione, se così si può dire. La prima è che, leggendo la bella ma travagliata storia dell’Istituto comboniano, si ha la sensazione che ci siano delle tensioni che riemergono in certi momenti decisivi della nostra storia; la seconda è la sensazione che viviamo in questo inizio di secolo, un momento di svolta, con delle tensioni che emergono e che corrono il rischio di erodere la vita dell’Istituto, se non sono risolte in modo creativo, se non si riesce ad integrarle in una sintesi positiva.

Il punto di partenza
Il nostro punto di partenza è, perciò, anch’esso duplice. Da una parte, partiamo dalla storia, rivisitando la storia dell’Istituto, i momenti in cui sono emerse le tensioni, per cercare di capire come sono state risolte, individuando valori e atteggiamenti che hanno facilitato l’integrazione. Dall’altra, partiamo dal presente, per cercare di capire i cambiamenti in atto, le tensioni che emergono e chiedono una risposta… uno sforzo d’integrazione che tenga conto del tempo che viviamo, del luogo in cui siamo (il discernimento dei segni del tempo e del luogo…). L’attenzione al presente ci permetterà di fuggire la tentazione di risolvere le tensioni di oggi con le risposte di ieri, e di pensare di rinnovare l’Istituto con i modelli del passato.

Un passaggio
Come prospettiva, assumiamo, dunque, un passaggio: dalla sorpresa per la presenza di queste tensioni e l’apparente incapacità di risolverle una volta per sempre (prima reazione spontanea) alla percezione che la risoluzione delle tensioni si fa secondo i tempi e i luoghi. Cioè, che ogni tempo, ogni generazione comboniana deve fare la sua sintesi, risolvere le tensioni che sorgono o che riemergono nel suo cammino.

Questo passaggio ci porta alla convinzione che, di per sé, le tensioni, le polarità costituiscono un dinamismo di crescita, non sono necessariamente negative (possono esserlo se non sono risolte). Le polarità, tendenze di segno diverso, generano tensione, ma anche vita e dinamismo, contengono una promessa di crescita travestita da crisi (ricordiamo l’icona del bastone del Cardinale Martini, il bacolo episcopale che ha due estremità, una bella e una brutta, da tenere unite… Se le tagliamo, avremo ancora due poli ma il bastone non servirà più come strumento propulsore del cammino[1].

1. Polarità al livello della metodologia missionaria: tra evangelizzazione (catechesi, annuncio, vita cristiana) e promozione umana (trasformazione sociale)

1.1 È una polarità che appare già presente agli inizi dell’Istituto, nelle discussioni in missione (nel Vicariato) e nei primi Capitoli Generali, che possiamo esprimere con la questione: si deve prima fare catechismo o insegnare i mestieri (uffici)? Vale la pena fare subito alcune osservazioni. Primo, che questa è una questione che riflette le due anime originali dell’Istituto (missionari del mondo austro-ungarico più sensibili al civilizzare prima; altri missionari più sensibili alla dimensione spirituale e sacramentale, ecclesiale). Secondo, che è una questione che riflette la composizione del personale missionario del Vicariato dell’Africa centrale, dove i laici/artigiani/fratelli sono più numerosi (nelle spedizioni sono più numerosi dei sacerdoti), portando una visione propria con una mistica positiva sul progresso umano.

1.2 La prima risposta a questa tensione la possiamo vedere incarnata nella persona del fondatore, Daniele Comboni, che vive in modo spontaneo questa tensione e offre una sintesi nel suo agire personale e nel modo di organizzare la missione: a Khartoum e a El Obeid s’insegna il catechismo e c’è la scuola per gli uffici. La sintesi del Comboni va vista nel contesto della mistica del movimento missionario dell’Ottocento, che mantiene unite le due dimensioni, il desiderio di portare la salvezza cristiana agli africani e l’entusiasmo per comunicare il progresso umano e le arti trasformative. Ma Daniele Comboni aggiunge le sue intuizioni: salvare gli africani con gli africani, rendere gli africani protagonisti della loro evangelizzazione e del loro progresso, in una missione cristiana vista come incontro, reciprocamente arricchente, con i popoli e le loro culture; combatte le piaghe che segnano l’Africa del suo tempo e luogo (tratta degli schiavi, malattie, pestilenze).

Due biografie del fondatore aiutano a percepire questa integrazione vissuta e proposta ai suoi da Comboni. La biografia del Grancelli[2] aiuta a contemplarlo come missionario sul terreno, assumendo e proponendo iniziative e sensibilità che tengano assieme evangelizzazione e salvezza cristiana con lo sviluppo e il progresso di persone e popoli. La biografia del Romanato[3] situa il Comboni nel contesto politico, culturale e sociale dell’Ottocento e aiuta a capire l’originalità della sua sintesi e delle sue iniziative: unire in un modo originale e profetico evangelizzazione e progresso umano, promuovere una missione come incontro tra Cristianesimo e popoli e culture;e scommettere sulle potenzialità delle persone e dei valori dei popoli.

1.3 Questione sommersa e ricorrente. La questione sopravvive al Capitolo del 1899 (19-22 giugno), il primo dopo la trasformazione dell’Istituto in congregazione religiosa; e riemerge nel secondo del 1909 (3-12 ottobre), dove si prendono decisioni per studiare le lingue e tradurre catechismi. Nella sesta seduta capitolare[4] si fa una “relazione sommaria della missione del Sudan, notando il generale progresso morale e materiale” e “facendo osservare che si potrebbe desiderare in qualcuna maggiore unione e carità fraterna e meno spirito di divisione e critica”. Una delle cause di questo spirito di divisione e critica era, certamente, questa tensione: allora, come oggi, i missionari che si tengono in considerazione devono litigare su questa questione della missione cristiana. Sempre in questo Capitolo, nella relazione sulla missione di Lull, si dice che ci si aspetta che i “padri si possano dedicare meglio all’evangelizzazione dei Schilluk”. Se il progetto di stampare la grammatica e il dizionario Schilluk favorisce tanto l’evangelizzazione come il progresso umano, la decisione di “stampare il catechismo nella tipografia di Casa Madre” dimostra l’impegno di dare priorità all’evangelizzazione.

La configurazione dell’Istituto in congregazione religiosa, dunque e di per sé, non risolve questa tensione. Forse a indicare che essa non ha origine nella organizzazione della vita dei missionari stessi, ma ha una origine più profonda: deriva dalla natura della missione cristiana e della sensibilità dei missionari nel rispondere alle sfide dell’evangelizzare e della missione come incontro con i popoli e le loro culture. Possiamo anche vedere la permanenza di questa tensione dietro lo schieramento delle posizioni e sensibilità dei due gruppi (linguistici, nazionali e culturali…) nel terzo Capitolo Generale del 1919 (21 settembre a Verona); e nel processo che ha portato al doppiaggio dell’eredità del Comboni, nella creazione delle due congregazioni: Figli del Sacro Cuore di Gesù (FSCJ) e Missionari Figli del Sacro Cuore (MFSC), nel 1922-1923.

Nei loro percorsi di sviluppo separato, i comboniani FSCJ e MFSC hanno posteriormente elaborato sintesi che si sono mostrate feconde per decenni. Il modello dell’integrazione tra evangelizzazione e promozione umana è quello della “missione tutto in una”. Cioè: a Khartum, El Obeid e Wau (nel Sudan); a Gulu (nel nord Uganda); a Maria Trost e Glencowie (Nel Sudafrica) …, c’è la chiesa, il catecumenato, c’è una comunità cristiana che si raduna; ci sono la scuola o il collegio, le officine per ragazzi e ragazze, l’ospedale, la tenuta agricola…

1.4 Venti Conciliari. Nel Capitolo Generale del 1969, i venti di rinnovamento conciliare, portati dal Vaticano II (1962-1965), soffiano sulla questione e riaccendono la tensione tra evangelizzazione e promozione umana. Il magistero della Chiesa venne in aiuto dei missionari: Paolo VI con la Populorum Progressio e la Evangelii Nuntiandi; Giovanni Paolo II con la Redemptoris Missio (che aiutano ad arrivare alla sintesi: la promozione umana è parte integrante dell’evangelizzazione).

Spinti da questi venti, tra noi comboniani, si ricercano nuove sintesi che tengano conto della diversità di situazioni, tra missionari in Africa (che tradizionalmente danno valore alle istituzioni, scuole, ospedali come mezzi di trasformazione sociale) e missionari in America Latina (che hanno un approccio molto più ideologico al processo di trasformazione sociale, con l’avvento della Teologia, e della pratica, della Liberazione). I documenti capitolari del 1969, nella parte II, capitoli I e II parlano della metodologia e dinamica missionaria[5] e offrono una sintesi per i missionari sacerdoti e per i missionari fratelli (ministeri ordinati e non-ordinati).

Nel frattempo, e a partire degli anni 80, diminuisce la capacità dei missionari comboniani di lavorare in istituzioni e si lasciano cadere le grandi istituzioni per la trasformazione sociale (si abbandona il modello di “missione tutto in una”; si lasciano scuole, collegi, città dei ragazzi (La Paz, Esmeraldas, Gilgil…); e si inizia la ricerca di nuove sintesi, basate sui piccoli progetti e sul lavoro di coscientizzazione e di risposta immediata ai problemi della gente; delle sintesi che assicurano un protagonismo individuale più evidente e offrono la promessa di un risultato (un ritorno) più immediato.

1.5 Percorso di ingrossamento. Si inizia così un percorso che ingrossa le varie dimensioni della missione cristiana e i vari aspetti della trasformazione sociale: si abbracciano la lotta per i diritti umani (casa, educazione, salute, lavoro…); la lotta per la giustizia e pace (si sposano le cause della pace, della giustizia, del contrasto alle logiche di guerra e alla produzione di armamenti). Nel Capitolo del 1997 si crea la frase “Missione è …” e ognuno aggiunge la sua causa del cuore, o della moda del momento, o dell’ecclesiale e politicamente corretto.

Si arriva così all’inizio del sec XXI e si apre alle migrazioni e alla difesa del creato, come dimensioni della missione/evangelizzazione. Il magistero ecclesiale viene, ancora una volta, in aiuto dei missionari (con papa Francesco, con la Evangelii Gaudium e la Laudato Si’) per aiutare a trovare una sintesi, che componga in forma nuova e armonica tutte le dimensioni della missione cristiana, dalla presenza e dall’annuncio cristiano all’ecologia e difesa della nostra casa comune. Ma nel frattempo i missionari comboniani sembrano aver perso la capacità di tenere unite tutte le dimensioni della missione e, più facilmente, si concentrano su una dimensione, dimenticando e silenziando le altre. Si cita Papa Francesco, ogni giorno e a discrezione, ma non si è capaci, come Istituto, di costruire una sintesi che permetta ai missionari comboniani di appropriarsi in modo organico (cioè, secondo il proprio carisma, la propria storia e le proprie forze) di quello che Papa Francesco dice per tutta la Chiesa.

1.6 Alcune conseguenze. C’è una ricaduta (ci sono delle conseguenze) di questa situazione, a vari livelli. Primo, sui candidati alla vita missionaria (almeno in Europa): sono attratti dalle “cause,” di questi aspetti della trasformazione sociale; le assumono come motivazioni vocazionali e non riescono a trovare la dimensione portante, la motivazione, pietra angolare che sostenga la sequela per la missione e unisca le varie dimensioni (il dono della propria vita a Cristo e all’annuncio del suo Vangelo, del servizio al suo corpo storico, che è la Chiesa e l’Istituto). Secondo, sui missionari che partendo da queste dimensioni si costruiscono una “missione a misura di persona,” centrata sul modello dei progetti… La mancanza di una sintesi integrata, a livello d’Istituto, minaccia di frammentare il carisma e di fare sparire la coscienza di una missione comboniana condivisa.

Gli ultimi Capitoli Generali hanno aiutato sì a rispondere alle dimensioni che caratterizzano il momento (ecclesiale, politico, sociale); ma non hanno aiutato a approfondire le tensioni che decorrono dalle varie dimensioni e a trovare una sintesi d’insieme che sostenga il cammino e faccia crescere l’Istituto nel suo insieme, fedele al suo carisma missionario. Più che crescere, l’Istituto sembra esaurirsi, con il crescente senso di una varietà di dimensioni/cause perseguite individualmente e la sensazione di assenza di una missione comune/condivisa.

2. Polarità al livello della vita interna dell’Istituto: tra vita religiosa e vita apostolica (tra consacrazione e missione)

2.1 La configurazione religiosa. Il processo di configurazione dell’Istituto comboniano in congregazione religiosa (FSCJ) ha avuto un risvolto positivo: ha salvato l’eredità missionaria di Daniele Comboni (che sarebbe sparita se l’Istituto fosse stato assorbito dai salesiani o dagli stimmatini); ha preservato l’identità missionaria dell’Istituto, che è rimasto fedele al carisma missionario del fondatore (alla missione del Vicariato dell’Africa Centrale); ha assicurato una formazione di maggiore qualità ai membri; ha promosso una spiritualità alta, un forte senso di consacrazione alla missione, un senso di unità e fraternità (cenacolo di apostoli) che il Fondatore aveva desiderato per i suoi missionari (anche se la spiritualità tipica del fondatore e la sua mistica missionaria non emergono nelle costituzioni preparate allora dai gesuiti).

2.2 Tensione innescata. Ma la configurazione religiosa ha innescato nell’Istituto una tensione tra vita religiosa e vita apostolica, che subito si manifesta, e percorrerà la sua storia.

La prima crisi seria scoppia al Cairo tra i FSCJ e il Vicario Sogaro[6]. Questo vuole avere mano libera negli assegnamenti e spostamenti dei missionari. Quelli sono fieri della loro autonomia interna e vogliono rimanere fedeli al loro superiore religioso. Il gesuita P. Steinhuber, consultore di Propaganda Fide, aveva già rilevato che le regole, preparate dal gesuita P. Frigerio, erano “poco precise nelle relazioni che dovevano esistere tra il Vicario e il Superiore Religioso”[7]. Dalla parte dei FSCJ si cerca una sintesi, una risposta: P. Frigerio pensa che “i missionari devono obbedire al Vicario Apostolico in conformità alle Regole della Congregazione” che costituiscono un limite alla sua autorità; P. Asperti distingue due aspetti di obbedienza, “comune e particolare”, in forza del voto; il Vicario Apostolico avrebbe diritto alla prima, in ciò che non sia contrario alle Regole dei religiosi. La crisi non ha una risoluzione immediata: mancano criteri da parte di Propaganda Fide, che tarda a prendere posizione; sembra risolversi, ma alla fine porterà all’allontanamento di Sogaro dal Vicariato.

La seconda crisi sorge come un disagio che si prova a fuoco lento. Al Cairo, e poi a Khartoum, le regole interne dei FSCJ si rivelano inadeguate al clima, alle esigenze concrete del luogo e della missione (avvisi e regole, raccolti e insegnate da P. Asperti a Verona). Propaganda Fide suggerisce una revisione delle regole interne (22 gennaio del 1894) e nel 1895 approva le Costituzioni e nomina Roveggio al posto di Sogaro, con l’idea che le tensioni avrebbero una risoluzione facilitata dalla personalità di Roveggio e dal fatto che superiore religioso e vicario apostolico siano la stessa persona e un missionario FSCJ. Ma la tensione rimane e viene a galla, anche se vicario apostolico e superiore religioso sono ambedue FSCJ. Per es., tra il Vicario Apostolico Geyer e il superiore generale P. Vianello.

Nel 1912, Geyer vuole disporre del personale in un modo più efficiente, creando il Vicariato del Sud Sudan e affidandolo a missionari di origine italiana, mentre lascia il personale di lingua tedesca nel Vicariato di Khartoum. La consulta del 7 ottobre del 1912, rifiuta questa divisione del vicariato e dispiego del personale. Ma, all’ora di firmare la convenzione (2 aprile del 1913), P. Vianello scende a compromesso: “Il vicariato settentrionale verrà in regola generale provveduto di personale di lingua tedesca; e il Vicariato del Sudan Meridionale di lingua italiana, senza pregiudizio delle facoltà che il Superiore Generale ha su tutti, in forza delle Regole”[8].

2.3 Ecclesiologia Conciliare. L’avvento dell’ecclesiologia conciliare del Vaticano II (con la fine del ius commissionis e di una missione collegata ad un territorio; e con il passaggio della missione alla Chiesa locale, che ne diventa soggetto e primo responsabile) ha favorito la risoluzione del conflitto di giurisdizione e le tensioni ad esso connesse. Ma non ha risolto la tensione tra esigenze della vita religiosa e della vita apostolica, che hanno continuato a segnare la vita dei membri delle congregazioni comboniane. I superiori religiosi sono rimasti col compito di gestire e aiutare i membri delle congregazioni ad integrare queste due dimensioni (consacrazione e missione), avendo influenza solo sulle esigenze della vita in comune e non sulla vita apostolica.

Per i comboniani FSCJ, il Capitolo Generale del 1969 ha cercato di superare le tensioni accumulate negli anni anteriori tra vita religiosa e vita apostolica. I comboniani MFSC cercano di farlo nel Capitolo del 1967, che approfondisce la spiritualità missionaria e inizia la revisione delle Regole e Costituzioni. Fino agli anni 60, tanto per i FSCJ come per i MFSC, la vita apostolica è fortemente conforme ai valori e alle forme della vita religiosa, tipica della fine del secolo XIX e prima metà del secolo XX. Negli anni 60, i missionari di età matura vi trovano ancora un forte senso di identità e motivazione. Ma i missionari più giovani non si ritrovano nelle forme e ritmi della vita religiosa e, attratti dalle novità conciliare, vivono aspettative di cambio…

2.4 Svolta Capitolare e nuova configurazione. Il Capitolo del 1969 (Capitolo Generale speciale) segna l’inizio della ricerca di una nuova sintesi per risolvere la tensione tra consacrazione e missione. I documenti usciti da questo Capitolo[9] propongono un ritorno al Fondatore; all’identità missionaria come peculiarità propria della congregazione; all’idea di una fraternità per la missione; all’idea della comunità apostolica con ritmi di vita più aperti e apostolici. Questi documenti sono approvati ad tempus, sostituiscono le Costituzioni e Regole precedenti, e preparano il cammino per la nuova Regola di Vita (approvata nel Capitolo del 1979, il primo delle due congregazioni riunite, dei MCCJ) che consacra la sintesi tra missione e consacrazione che abbiamo ancora.

Possiamo considerare le dinamiche dei Capitoli Generali del 1969 e 1979 (e per i MFSC il Capitolo del 1975), e i risultati a che portano (i documenti del 69 e la RV del 79), come una nuova configurazione, chiaramente apostolica, dei FSCJ e MFSC; una nuova sintesi tra consacrazione e missione; una configurazione che si ispira alla riscoperta del Fondatore e della specificità missionaria della congregazione. Questa configurazione privilegia la vita apostolica e rinnova tutti gli altri aspetti in vista di questo; cioè, collegando la consacrazione (i voti) alle varie dimensioni della vita missionaria, e non ai vari aspetti della vita religiosa tradizionale.

3. Polarità ministeriale, a livello dei ministeri dei membri dell’Istituto: tra ministeri ordinati (sacerdoti) e non ordinati (fratelli, laici)

3.1 Pressione tellurica, nascosta. Abbiamo già accennato alla pressione, chiamiamola così, dagli inizi dell’Istituto comboniano, che veniva dai laici (fratelli, artigiani, maestri d’arti e uffici) che spingevano per il “civilizzare prima”. Questa spinta persiste fino alla trasformazione dell’Istituto in congregazione religiosa (1895). Allora, i missionari religiosi FSCJ sacerdoti prendono in mano le redini della missione e dell’evangelizzazione; ma la tensione persiste, aiutata anche dalla resistenza del clero secolare presente nel vicariato e arriva ai primi due Capitoli Generali (in questi Capitoli si discute della formazione dei laici fratelli, delle scuole di uffici come del catechismo) e al momento della divisione, nel 1923. Il Capitolo Generale del 1919 insiste sul “sistemarsi di una Scuola Apostolica per formare Fratelli”[10]. Nell’ottava seduta il Capitolo “approva la sistemazione della scuola apostolica per formare fratelli, insistendo perché, più che al numero, si attenda a formare bene il loro spirito”[11]. In mezzo alle aperture, rimangono dubbi e chiusure “sulla convenienza o no di concedere ai fratelli d’insegnare qualche volta il catechismo o di esercitare opera di ministero spirituale” e si fa un appello affinché “non si permetta che il Vicario o Prefetto Apostolico assuma un fratello come segretario o confidente”[12].

Con la creazione delle due congregazioni, possiamo dire che si arriva a una doppia sintesi di questa tensione tra ministeri consacrati e non consacrati, sacerdoti e laici.

I MFSC promuovono una missione più laicale, secolare, con un ruolo più incisivo dei fratelli, che vengono più curati nella loro preparazione secolare, professionale e più coinvolti nella gestione materiale della missione, ma meno curati nella preparazione religiosa e spirituale. I FSCJ promuovono una missione più centrata sul ministero ordinato dei sacerdoti, che prendono in mano le redini di una missione ed evangelizzazione, fortemente conformate alla dimensione spirituale. I missionari sacerdoti sono i protagonisti (parlano della chiesa che ho fatto io, anche quando la chiesa l’ha costruita il fratello). I sacerdoti si “accaparrano” la direzione dei centri di formazione (catechisti) e delle scuole. La formazione spirituale dei fratelli laici è assicurata; ma la preparazione professionale lo è meno. Questo modello finisce coll’alimentare una tensione tra sacerdoti e fratelli e un’insoddisfazione tra i fratelli laici.

Il Capitolo del 1969 cerca di dare risposta a questa insoddisfazione, cerca una nuova sintesi, che valorizza il ministero non ordinato, i laici nella missione. Per la prima volta i fratelli partecipano al Capitolo Generale (4 delegati). I dinamismi di rinnovamento, che portano al Capitolo del 1979, aprono ai fratelli nuovi orizzonte di coinvolgimento nella missione e nella vita dell’Istituto: questo Capitolo elegge, per la prima volta, un fratello membro del consiglio generale (Enrico Massignani); si abbraccia l’idea della ministerialità, con la promozione dei ministeri laicali (catechisti, leader laici, anziani nelle comunità cristiane); inizia il processo che porta (agli inizi degli anni 80) alla revisione dell’iter della formazione dei fratelli, con la ricerca di nuovi ambienti formativi (andando oltre il centro tradizionale, di Pordenone per i FSCJ e di Ellwangen Josefstal per i MFSC, e creando i Centri Internazionali per i Fratelli, CIF, a Nairobi e Bogotá). Si cerca una formazione che migliori la formazione professionale, integrandola meglio con la formazione spirituale, biblica e teologica.

3.2 Ugualmente coinvolti. Siamo così arrivati alla sintesi attuale, che vede i ministeri ordinati e non ordinati (sacerdoti e fratelli) ugualmente coinvolti nella missione ed evangelizzazione, secondo le loro specificità (anche se c’è una tendenza alla reciproca invasione di campo). Resta ancora, come fonte di qualche tensione, l’esclusione dei ministeri non-ordinati dall’esercizio dell’autorità e del coordinamento della vita comunitaria[13].

4. Polarità carismatica: tra il carisma dell’individuo e dell’Istituto

4.1 Capacità d’integrazione. Agli inizi del suo Istituto, Daniele Comboni ha un gran senso di magnanimità: una grande capacità di accogliere i carismi personali, valorizzare le doti degli individui e finalizzarli alla missione. La sua capacità di attrazione e il suo esempio mantengono uniti una serie di missionari e missionarie, molto differenti nelle loro personalità, nei carismi, nei percorsi di vita e di testimonianza cristiana.

Comboni sa che la vocazione alla missione è un dono personale, comporta una risposta personale e perciò valorizza ognuno/ognuna dei suoi missionari/e, nei suoi pregi e nei suoi limiti. Ma ha anche un sogno: che il dono personale della vocazione missionaria sia vissuto nella fraternità, nel Cenacolo di Apostoli, dove si forgia il senso di comunione e di unità, di missione condivisa. Dal percorso di formazione nell’Istituto, si aspetta il tessere di questo senso di unità e comunione, di questo senso di fedeltà alla missione comune, fino al martiro (chiede ai candidati un atto di consacrazione alla missione nell’Istituto, che è un atto d’identificazione con una missione comune). Ma già tra i primi suoi missionari c’è chi ha una sua agenda, chi strumentalizza l’Istituto e il Vicariato per fini personali.

4.2 Identità e dicotomia. La trasformazione dell’Istituto comboniano in congregazione religiosa aiuta a superare questa dicotomia, col promuovere un forte senso d’identità e di appartenenza, una mistica di unità e comunione. I FSCJ sono conosciuti nei primi anni per il forte spirito di carità e di comunione, di appartenenza reciproca, di identificazione con la missione della congregazione (la Nigrizia, il Vicariato dell’AC).

Negli anni dopo la divisione dell’Istituto entrano, tra i FSCJ e tra i MFSC, un numero significativo di candidati che provengono dai seminari maggiori diocesani, personalità già fatte, che perseguono la realizzazione della vocazione missionaria come sogno molto personale e personalizzato. C’è chi assume la mistica missionaria del carisma comune; ma c’è anche chi persegue il sogno personale, all’ombra dell’Istituto. L’apertura alle vocazioni adulte (negli anni 60) ha aiutato ad accrescere le distanze tra carismi personali e carisma comune, rendendo più difficile l’identificazione con la missione della congregazione.

4.3 Missione personale e comune. Il rinnovamento conciliare, dopo gli anni 60, apre la porta alla ricerca di un nuovo rapporto tra missione personale e missione comune: valorizza i carismi nella Chiesa, che sono doni personali per l’edificazione comune; apre spazi per un nuovo protagonismo dell’individuo nell’evangelizzazione. Tra noi, diminuisce la capacità di identificarsi (sacrificarsi per) con la missione comune e aumentano i protagonismi individuali (promossi dai profeti minori, nel Capitolo del 69!). I profeti minori finiscono per abbandonare l’Istituto, ma il profetismo resta nell’Istituto e diventa individuale.

Arriviamo al Capitolo del 1997, che integra questo affermarsi della persona e dei suoi carismi personali, della missione come carisma personale: nel dopo Capitolo si proclama che “Missione è attenzione alla Persona”[14] e si cerca una nuova sintesi tra missione personale e missione dell’Istituto. L’espressione, alla fine, però, apre la strada a interpretazioni estreme: all’evasione nelle proprie agende e ad un senso di appartenenza all’Istituto meramente formale, riducendo l’Istituto alla funzione di mezzo per realizzare un fine personale, la propria vocazione, o quello che si pensa essere la propria vocazione.

La cultura che viviamo oggi (dell’individualismo e delle reti sociali) rafforza questa tendenza a sopravvalutare l’individuo e i suoi carismi, a scapito dell’istituzione e della coscienza di un carisma comune, condiviso. L’appartenenza all’Istituto diventa formale e l’istituzione della congregazione si svuota e viene messa in secondo piano; si smarrisce il senso della missione comune.

5. Polarità a livello di genere: tra uomini e donne (tra i membri delle due congregazioni comboniane) nella missione

5.1 Le donne del Vangelo. Daniele Comboni fu pioniere nel coinvolgere le donne nella missione: le porta nella missione (le Suore di San Giuseppe, prima), convinto che siano fondamentali nell’evangelizzazione e trasformazione sociale del mondo femminile, e non solo, del contesto islamico; fonda l’Istituto delle Pie Madri della Nigrizia, nel gennaio del 1872, per formare le “donne del vangelo” da mandare nella nigrizia. Le porta lui stesso nel vicariato e segue personalmente il loro coinvolgimento e inserimento nella missione.

Riguardo al futuro delle Pie Madri, Daniele Comboni ha una visione generosa e sogna in grande per le missionarie: si pensi alla missione che voleva affidare a Sr. Teresa Grigolini, mesi prima di morire, di andare a Roma e parlare con Propaganda Fide perché le fosse affidata la sistemazione delle faccende della congregazione a Verona. I suoi collaboratori, però, fanno fatica a sintonizzarsi con questa visione del Comboni; D. Losi, in seguito alla morte del Comboni, ricorda che il capo della missione è lui e proibisce a Teresa di andare in Europa[15].

5.2 Regole e pregiudizi del tempo. La trasformazione dell’Istituto in congregazione religiosa ha regolato i rapporti fra missionari e missionarie sulla base delle regole e dei pregiudizi propri delle congregazioni del tempo. Il protagonismo va ai missionari sacerdoti. Le missionarie finiscono per essere considerate come ausiliarie al servizio dei sacerdoti. Così è in molte istanze, e così si percepiscono esse stesse, in una percezione che si integra nella visione della vita religiosa del tempo. C’è un’aureola di dipendenza delle suore dai padri (nel lavoro in missione, nell’economia) che si impone per decenni.

Nel Capitolo Generale del 1919, per esempio, dopo la lettura del resoconto delle varie case e missioni, “il Capitolo fa voti perché il Rev.mo Superiore Generale insista presso le Pie Madri per un maggiore concorso da parte loro nella fondazione e nel mantenimento delle loro stazioni (…) accennando anche al fatto che vi sarebbero istituti di suore disposte a fondare e mantenere stazioni completamente a loro spese”[16]. La questione economia è una pietra d’inciampo nei rapporti tra missionari e missionarie, tanto che neanche il Capitolo si sente in grado di dirimerla, e afferma che “per quanto riguarda l’assegno annuo da pagarsi alle Suore si rimette la soluzione di questa questione al Consiglio Generale”[17].

5.3 Rinnovamento conciliare. Le dinamiche del rinnovamento conciliare alterano questa sintesi che manteneva le suore in un contesto di dipendenza. Le suore, e le donne nella Chiesa, cercano il loro protagonismo. Le Pie Madri cercano una nuova forma di rapporto che riconosca il carisma comboniano al femminile: abbandonano il servizio nelle comunità comboniane e, nella missione, rivendicano più autonomia per le loro iniziative.

Nel Capitolo del 1969 e del 1979, con la nuova Regola di Vita, si lanciano le basi, da parte nostra, per una nuova sintesi basata sulla collaborazione. La coscienza del ruolo delle donne nella Chiesa (e del femminismo nella società) ha rafforzato il percorso di rinnovamento autonomo delle Suore Missionarie Comboniane. Il Capitolo dei MCCJ del 1997 ha risposto a questa spinta, con la ricerca di una nuova sintesi nel rapporto tra missionari e missionarie: “Missione è Collaborazione” (c’è una lettera comune sul tema[18]). Collaborazione sì, rispondono le suore, ma su basi uguali, e questo richiede programmazione e realizzazione delle attività missionarie assieme.

5.4 Approdo femminista. Questo approdo delle SMC, chiamiamolo femminista, questa acquisita capacità di declinare il carisma comboniano al femminile da parte delle nuove generazioni di missionarie comboniane, ha creato delle difficoltà tra i comboniani, li ha come spiazzati. Siamo entrati nel secolo XXI con lo spirito di collaborazione in discesa, in diminuzione, nonostante gli appelli alla collaborazione (in discesa anche tra i missionari comboniani giovani, anche se il riconoscimento e il rispetto reciproco esistono). Siamo alla ricerca di una nuova sintesi che integri in un modo apostolico più fecondo i MCCJ e le SMC, due espressioni del medesimo sogno di Daniele Comboni e del suo carisma missionario (l’espressione riassuntiva che abbiamo trovato, “famiglia comboniana” è un’espressione meramente formale e non sembra avere un vero riscontro nella vita e nel percorso dei due istituti).

6. Conclusione: Come reagire a queste tensioni?

Atteggiamenti e vie per l’integrazione. Come conclusione, vorrei indicare brevemente alcuni atteggiamenti possibili davanti alle tensioni che riemergono nella nostra storia. Un primo atteggiamento possibile è ignorare le tensioni; è la reazione dello struzzo, che, spero, abbiamo superato. Un secondo potrebbe essere riconoscerle, ma pensare che si risolveranno da sé, per qualche nascosta dinamica di selezione naturale; è un atteggiamento che possiamo ritrovare ancora tra noi. Un terzo sarebbe cadere nella tentazione di eliminare uno dei poli della tensione; soluzione adottata, per es., nella divisione della congregazione (1922/1923); o pensare che una configurazione della vita dell’Istituto secondo il modello della Vita Religiosa risponderebbe a tutte le istanze e desideri di rinnovamento e aggiornamento (tentazione dell’inizio del Capitolo del 1969, felicemente superata). Infine, l’atteggiamento che contiene una promessa di fecondità, di futuro: cercare l’integrazione dei poli opposti e trasformare la tensione in energia creativa, con delle nuove proposte che focalizzino le energie e le tendenze delle persone.

Quali vie percorrere per facilitare questa desiderata integrazione? La prima è, certamente, promuovere l’informazione e la riflessione su queste tensioni ricorrenti e tutti gli aspetti che le riguardano; l’ignoranza non è buona consigliera nel discernimento. Seconda, promuovere il discernimento in comune, con delle consulte, capitoli, assemblee, raduni; nel 1922/1923 si prende una via nuova, senza nessun tipo di consultazione o discernimento in comune (assemblea, capitolo). Terza, combinare idealismo con realismo: proporre ideali, partendo dalla propria storia e dai suoi insegnamenti, partendo dalla situazione e dalle risorse concrete. Quarta, educare le persone ad una visione integrata: è la missione della formazione permanente (FP), un compito mai esaurito. Infine, agire al momento opportuno, tenendo conto della storia e dei ricorsi disponibili; le tensioni possono agire da bombe a orologeria e occorre disinnescarle in tempo.

Roma, 12 aprile 2020
Pasqua del Signore
P. Manuel Augusto Lopes Ferreira, mccj

 

[1] Carlo Maria Martini, in Il giardino interiore e Ritrovare se stessi, Piemme, Milano 1996.

[2] Michelangelo Grancelli, Mons. Daniele Comboni, Verona, 1923.

[3] Gianpaolo Romanato, Daniele Comboni 1831-1881, L’Africa degli esploratori e dei missionari, Rusconi, Milano 1998.

[4] Libro Capitolare, Secondo Capitolo Generale, VI seduta, pagina 33, Archivio Comboniano di Roma (ACR), casella 271/1.

[5] Documenti Capitolari, Missionari  Comboniani, Roma Dicembre 1969, pagine 241-263.

[6] Vedere: Vittorino Dellagiacoma, L’Eredità di Daniele Comboni, manoscritto, Biblioteca Comboniana di Roma.

[7] V. Dellagiacoma, opera citata, pp. 4 e ss.

[8] V. Dellagiacoma, opera citata, p. 14 e ss.

[9] Documenti Capitolari, Missionari Comboniani, Roma Dicembre 1969. Parte I, Sezione II, sulla Fisionomia dell’Istituto, pp. 40-77; parte II sull’Attività missionaria, pp. 223-328.

[10] Libro Capitolare, Capitolo Generale del 1919, 5ª Seduta del 27 settembre del 1919, p. 77.

[11] Ibidem, p. 81.

[12] Ibidem, p. 81.

[13] Documenti Capitolari del 2015, 53.1, Istituto Misto.

[14] Attenzione alla Persona nella Comunità Comboniana, Lettera del CG, Roma, 25 gennaio 2001.

[15] Maria Vidale, SMC, al Corso di Rinnovamento, Roma, 2020.

[16] Libro Capitolare, 4ª Seduta, del 27 settembre del 1919, p. 75.

[17] Ibidem, p. 76.

[18] Lettera del Consiglio Generale, Roma, 17 Marzo 2002. E anche, nei nostri giorni: Oltre la Collaborazione: sotto lo sguardo di Comboni, del 2 giugno 2017.