Consacrazione e Missione attraverso la Professione dei Consigli Evangelici

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Sabato 9 giugno 2018
Le riflessioni che seguono sono spezzoni che sono andato raccogliendo durante lo svolgimento del ministero come formatore e che ho cercato di tenere aggiornate fino al presente. Ho tentato ora di unirli sotto un unico titolo in modo da mettere in risalto il significato che ha nella nostra Regola di Vita la consacrazione a Dio per la missione attraverso la professione dei consigli evangelici (RV 10-11; 22). P. Carmelo Casile (al centro nella foto).

Consacrazione e Missione attraverso la Professione dei Consigli Evangelici
nella Regola di Vita dei MCCJ

P. Carmelo Casile

Le riflessioni che seguono sono spezzoni che sono andato raccogliendo durante lo svolgimento del ministero come formatore e che ho cercato di tenere aggiornate fino al presente. Ho tentato ora di unirli sotto un unico titolo in modo da mettere in risalto il significato che ha nella nostra Regola di Vita la consacrazione a Dio per la missione attraverso la professione dei consigli evangelici (RV 10-11; 22).

Potrebbero essere un tentativo di risposta al messaggio che il P. Generale ha inviato a noi comboniani il 3 dicembre 2012 in occasione del XXV anniversario dell’approvazione definitiva della nostra Regola di Vita, avvenuta il 3 dicembre 1987.

In questo messaggio siamo invitati a riprendere in mano il n° 31 degli Atti Capitolari del 2009, dove si sottolinea la necessità di “coltivare una maggiore familiarità con la RV”. Tale familiarità ci porterà “ad essere più coraggiosi, a osare, a oltrepassare ogni frontiera per creare nuovi spazi di missione”. Certamente ci stiamo dando da fare per trovare nuovi spazi di missione, ma questo sforzo resterà incompleto se ci manca il coraggio di includere anche le “periferie esistenziali” di casa nostra.

Una di queste periferie ce la indica la Ratio Missionis al n. 3.1.3, dove rileva che “se, da una parte, concordiamo sull’importanza di una sana vita spirituale, dall’altra, si denota come la nostra spiritualità sia debole e incerta e ciò comporti delle pesanti conseguenze”. Tra le varie conseguenze si stigmatizza il fatto che “si vive una certa schizofrenia tra il fare missione e la nostra dimensione di religiosi consacrati, tra fede e vita”.

Per superare questo ostacolo viene suggerito che “ogni comboniano si impegni in una lettura feconda della RV” e “la comunità faccia una lettura continuata per una riflessione condivisa”.

Gli spunti di riflessioni proposti potrebbero stimolare a questa “lettura feconda della RV” e a una “riflessone condivisa” in comunità.

1. I consigli evangelici, ideale del cristiano

«L’amore fraterno resti saldo. Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli. Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere, e di quelli che sono maltrattati, perché anche voi avete un corpo. Il matrimonio sia rispettato da tutti e il letto nuziale sia senza macchia. I fornicatori e gli adùlteri saranno giudicati da Dio. La vostra condotta sia senza avarizia; accontentatevi di quello che avete, perché Dio stesso ha detto: Non ti lascerò e non ti abbandonerò.Così possiamo dire con fiducia: Il Signore è il mio aiuto, non avrò paura. Che cosa può farmi l’uomo? Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunciato la parola di Dio. Considerando attentamente l’esito finale della loro vita, imitatene la fede. Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e per sempre! .… Non dimenticatevi della beneficenza e della comunione dei beni, perché di tali sacrifici il Signore si compiace. Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi, perché essi vegliano su di voi e devono renderne conto, affinché lo facciano con gioia e non lamentandosi. Ciò non sarebbe di vantaggio per voi » (Eb 13,1-8.16-17).

La Lettera agli Ebrei nel testo riportato, ci presenta l’ideale cristiano, che ci proviene dalla gioia della presenza in noi di Cristo Gesù, il Crocifisso/Risorto, Sommo ed Eterno Sacerdote, Figlio di Dio e fratello nostro, che ci coinvolge nei palpiti del suo Amore e nelle sue lacrime su un mondo bisognoso di un cuore nuovo per ritornare tra le braccia del Padre e mette nelle nostre mani i fratelli della terra, spingendoci a darci per loro con Lui e come Lui a Gloria di Dio Padre. Tale ideale consiste nel vivere nella carità, castità, povertà, obbedienza. Non è un ideale riservato a chi è chiamato a vivere nella vita religiosa. La vita religiosa radicalizza questi atteggiamenti di vita cristiana; però Cristo chiama tutti a realizzarli, ciascuno nel proprio stato di vita.Per tutti i fedeli di Cristo, infatti, incorporati a Lui in virtù del battesimo e chiamati alla santità nella perfezione della carità, c’è una reale esigenza di povertà, ma non fino alla liberazione da ogni bene terreno; di castità, ma non fino alla rinuncia al matrimonio; di obbedienza, ma non fino allo spogliamento della propria volontà nei confronti di coloro che tengono il posto di Dio; di vita fraterna, ma non fino alla condivisione pratica di un comune progetto di vita; di apostolato, ma non fino al punto che questo diventi il centro di organizzazione di tutta la vita…

Da queste esigenze inerenti alla vita evangelica di ogni battezzato, nascono i consigli evangelici. Il consiglio è un invito del Signore Gesù a fare una scelta libera, che indichi un atteggiamento interiore che coinvolge la persona nella sua globalità nella sequela più stretta e più fedele di Lui, in modo permanente e visibile. L’osservanza generosa di un precetto del Signore non configura ancora tale scelta, ma solo quando, nell’inserzione più profonda nel mistero della croce del Signore e della sua resurrezione, tale osservanza liberamente assunta come regola di vita, raggiunge quella radicalità che determina tutta la vita e tutta l’esistenza e che può prendere forma nella “totale dedizione alla causa missionaria”, come avvenne in san Daniele Comboni (cfr RV 2-5).

La Carità: “Perseverate nell’amore fraterno. Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere, e di quelli che soffrono, essendo anche voi in un corpo mortale. Non dimenticatevi della beneficenza e della comunione dei beni”.

Si tratta della Carità che scorga dal Cruore trafitto di Gesù, Buon Pastore, una carità che è espressione dell’amore divino a noi donato e da noi accolto e comunicato, un amore generoso, partecipe, costante. È il sacrificio della carità fraterna. In questo modo noi continuiamo nella realtà della nostra vita l’offerta di Cristo, iniziata con l’Incarnazione e arrivata al culmine con la Crocifissione-Risurrezione, anzi è Lui che continua in noi la sua offerta per la salvezza del mondo. Questa carità, tra i modi di realizzarsi, trova una via peculiare nella «vita consacrata», che coinvolge la persona nella sua totalità mediante la professione della castità, povertà e l’obbedienza. La castità è la corsia centrale.

La castità: l’autore ne parla a gente sposata: “Il matrimonio sia rispettato da tutti e il talamo sia senza macchia. I fornicatori e gli adulteri saranno giudicati da Dio”. E la castità dei religiosi è segno, aiuto, forza per gli altri.

La povertà: “La vostra condotta sia senza avarizia; accontentatevi di quello che avete…”.Si tratta di uno spirito di povertà che esprime la nostra fiducia in Dio: “Così possiamo dire con fiducia: “Il Signore è il mio aiuto, non temerò”

L’obbedienza. “Ricordatevi dei vostri capi…”. E più avanti l’autore aggiunge: “Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi, perché questo sia di gioia per loro e vantaggioso per voi“. È difficile obbedire, essere sottomessi, ma la strada della vera carità e dell’unità è questa, non ce ne sono altre. L’attitudine di fondo in questa obbedienza è la sottomissione a Dio, attraverso i capi che egli ha scelto.

La consacrazione attraverso la professione dei consigli evangelici è la conseguenza più personale e interiore della vita evangelica, cioè della vita cristiana, poiché tocca più da vicino l’intelligenza, la volontà, gli affetti, la realizzazione e la maturità della persona, e la rende pienamente libera, in quanto, illuminata e spinta dalla carità che sgorga dal Cuore di Cristo, assume questa via in virtù del suo incontro personale con il Signore Gesù (cfr. RV 21.1); non la subisce quindi né da pulsioni interne né da pressioni esterne.

I voti religiosi sono vie evangeliche, perché la persona si rende disponibile a lasciarsi evangelizzare, introdurre e maturare in queste vie da Cristo Gesù, che è la stessa Parola di Dio fatta uomo (Gv 1,1.14; Eb 1, 2; 1Gv 1, 1; Ap 19, 13), e dalla comunità religiosa, nella quale si inserisce.

Queste vie evangeliche sono un’esplicitazione della vita battesimale, sono modi differenti di attualizzare il Vangelo, di seguire Cristo. La vita religiosa non è altro che una risposta alla grazia del Battesimo, una personalizzazione di questa grazia sotto l’influsso dello Spirito Santo, che propone al battezzato la via della conformazione a Cristo, «il quale, vergine e povero, redense e santificò gli uomini con la sua obbedienza fino alla morte di croce» (PC 1c). I religiosi non sono super cristiani e i battezzati non sono una sotto categoria della vita consacrata. I consacrati e le consacrate sono semplicemente delle persone che si impegnano a divenire pienamente umani e cristiani, vivendo il Vangelo di Gesù Cristo attraverso la peculiare modalità della professione dei consigli evangelici.

Su tale modalità l’esortazione Vita Consacrata è molto esplicita: «Le persone consacrate, che abbracciano i consigli evangelici, ricevono una nuova e speciale consacrazione» (n. 31d) che, pur avendo come fondamento adeguato la consacrazione battesimale e crismale, tuttavia non è richiesta da esse e non ne scaturisce come una necessaria conseguenza. Essa è un «particolare dono di Dio non concesso a tutti, come Gesù stesso sottolinea per il caso del celibato volontario (cfr. Mat 19,10-12)» (n. 30b), che apre la consacrazione battesimale e crismale a nuove possibilità e frutti di santità e di apostolato (cfr. n. 30c-d).

Se noi religiosi ignoriamo la specificità della vita consacrata mediante la professione dei consigli evangelici, se non arriviamo a distinguerla adeguatamente dalla vita cristiana e dalla vita umana, non per separarla da esse ma per armonizzarla con esse, se non viviamo questa differenza, finiamo per adagiarci in uno stile di vita secolare e metterci nella situazione di scomparire per insignificanza.

Secondo l’esortazione apostolica Vita consacrata nelle Chiesa esistono tre differenti vocazioni: alla vita laicale, al ministero ordinato e alla vita consacrata (cfr. VC 31).

Possiamo far emergere l’identità della vita consacrata, precisando il significato del termine “consacrazione” sul piano umano e cristiano.

La consacrazione, infatti, sul piano umano, è la concentrazione di una persona su un determinato valore terreno; sul piano cristiano si accede alla consacrazione battesimale, che è la santificazione del fedele attraverso la comunione con Dio Padre per Cristo sotto l’azione Spirito Santo, è l’accoglienza del Regno di Dio nella propria vita; sul piano religioso la consacrazione è la concentrazione della vita di un cristiano su Dio e il suo Regno come risposta a un invito che Gesù rivolge ad alcuni discepoli. Li chiama «non solo ad accogliere il Regno nella propria vita, ma anche a porre la loro esistenza a servizio di questa causa, lasciando tutto e imitando da vicino la sua forma di vita» (VC 14a).

2. I tre pilastri della vita consacrata

La vita umana è fondata e si sviluppa intorno a tre pilastri. Il primo è Dio. L’uomo, infatti, riceve da Dio il dono dell’esistenza e vive in Lui e intorno a Lui (cf At 17, 28), è umano nella misura in cui riceve la vita da Dio come fondamento e significato di tutto il suo essere; il secondo pilastro della vita dell’uomo è negli altri: essere uomo è con-vivere, nascere da una famiglia, maturare in un ambiente di amicizia, rapportarsi con gli altri; il terzo è la sua stessa attività: è il lavoro, che lo fa capace di creare il suo ambiente: un mondo di verità, di vita, un mondo di bene, di fraternità universale.

Lo stesso si può dire della vita cristiana. Essa si fonda e si sviluppa sui medesimi pilastri. Il primo è Dio: per mezzo della fede ci uniamo, ci radichiamo in Dio che, secondo il suo eterno disegno d’amore, ci redime e ci accoglie come figli nel suo unico ed eterno Figlio (cf Ef 1, 3-6); il secondo è la carità: è l’impegno della comunione, dell’amore tra persone che diventano Chiesa, comunità di fratelli, perché “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato” (Rom 5, 5); il terzo è la speranza: è il cammino che ci fa creatori, cioè persone che, nutriti dalla più ferma speranza nel Crocifisso-Risorto, cercano un mondo nuovo e propongono agli uomini il messaggio dell’Apostolo: Ecco, ora è il momento favorevole per la trasformazione dei cuori, ecco adesso i giorni della salvezza (cf 2Cor 6, 2 in GS nn. 82-83).

Su questi stessi pilastri nasce e si sviluppa la Vita Consacrata.

In essa il principio o il primo pilastro è la “Consacrazione”, che è determinata dall’iniziativa dell’amore gratuito di Dio che chiama, e dalla fede in Lui come risposta a questa chiamata. La Consacrazione, per tanto, è vita aperta e incentrata in Dio, vita focalizzata nell’incontro intenso con Lui; vita di gratuità e di gratitudine, di particolare presenza e manifestazione del Mistero di Dio in una persona (cfr. RV 20; 46)

Il secondo pilastro è la carità, l’amore verso i fratelli nella vita comunitaria. La persona consacrata, infatti, in virtù del dono ricevuto, si sente spinta e s’impegna a creare comunità con un gruppo di fratelli, animati dalla stessa intensa presenza del Mistero e ricerca di Dio. Questa spinta viene dal fatto che il dono ricevuto è dono da donare, da con-dividere, in riconoscenza e amore a Dio, che per primo ci ha amati. Il dono del Signore fatto a me non esclude gli altri, ma attraverso di me è destinato a circolare anzitutto tra tutti coloro che vivono assieme a me. “Dio mi dona, mi si dona, perché io mi doni a mia volta. La mia cooperazione al dono di Dio consiste nel mio farmi dono per gli altri, dal momento che il mio Signore è pure il loro Dio”1. La condivisione del dono ricevuto genera tra i consacrati un modo di rapportarsi, di accogliere, di condividere, di essere solidali, che è attualizzazione di quella primitiva comunità cristiana in cui i rapporti interpersonali sono illuminati dalle parole di Gesù: “Vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri; come io vi ho amati, così amatevi anche voi gli uni gli altri; rimanete nel mio amore … non vi chiamo più servi … ma vi ho chiamati amici” (Gv 13, 34 e 15, 9. 15). Per questo la Vita Consacrata è vita condivisa, di comunione, vita comunitaria, che è segno visibile dell’umanità nuova nata dallo Spirito e diventa annuncio concreto di Cristo: “Siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che Tu mi hai mandato” (Gv 17, 23; cfr. RV 36).

Il terzo pilastro, o meglio, la meta della Vita Consacrata è una missione da compiere in favore degli uomini che abitano assieme a noi in questo mondo che è di Dio: “Andate in tutto il mondo” (Mc 16, 15). La missione del cristiano di andare, racchiusa nel cuore del Vangelo e risuonata solennemente nel giorno di Pentecoste, ha un suo segreto custodito anch’esso come perla preziosa nel Vangelo: “Rimanete nel mio amore”.Andare e rimanere: sono le due coordinate evangeliche in cui si muove la Vita Consacrata, e da cui trae quotidianamente la sua linfa vitale. Questo “andare in tutto il mondo” è la continuazione del dono di sé agli altri vissuto nell’interno della comunità che ora, dall’interno della comunità, si estende a tutti gli altri esseri umani. In questo gesto di donazione gli altri sono percepiti anch’essi come dono di Dio per noi, con cui con-vivere e con-dividere i doni, che abbiamo ricevuto dal Signore. In questo cammino nel mondo, l’impegno fondamentale è la lode di Dio, la testimonianza di Gesù a livello personale e comunitario e l’annuncio esplicito del suo Nome alle nazioni. Per questo la Vita Consacrata è sempre vita missionaria e per alcuni è vita missionaria “ad gentes” (cfr. RV 20-21; 56).

Per tanto, radice e fondamento della Vita Consacrata è precisamente la “Consacrazione”. È vero che tutti i cristiani, uniti a Gesù per il Battesimo, siamo consacrati a Dio, siamo uomini nuovi, unti dallo Spirito Santo. Tutti abbiamo la maggiore età che abbiamo ricevuto nella Confermazione. Per questo in un primo momento la Vita Consacrata è semplicemente vita cristiana. Tutti i cristiani sono morti mediante la fede al mondo vecchio; tutti hanno ricevuto nel Battesimo il dono dello Spirito, che li sigilla conformandoli a Gesù. Per questo noi missionari religiosi anzitutto dobbiamo semplicemente impegnarci a vivere come cristiani. Ciò che ci interessa prima di tutto è ciò che ci unisce agli altri. Con tutti i cristiani del mondo siamo consacrati, condividiamo l’“universale vocazione alla santità” e siamo quindi chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità2.

Ma pur essendo una sola, la Consacrazione cristiana ha diverse forme di realizzazione e quindi diverse forme di manifestarsi: dal martirio ai consigli evangelici praticati nelle diverse forme di Vita Consacrata fino alla Vita Religiosa, dallo stato sacerdotale a quello laicale e coniugale.

La Vita Consacrata, per tanto, ed in essa la nostra vita missionaria comboniana, nasce dalla vita cristiana e si sviluppa nella triplice dimensione della Consacrazione, della Comunione e della Missione della vita del popolo di Dio.

La Consacrazione per la missione nasce nel seno di un “popolo consacrato”, dalla partecipazione al suo itinerario di fede, per rendere visibile un Dio che vuole “stare con gli uomini”; un Dio che attraverso Gesù, e in Gesù, si manifesta come colui che, “nell’intimo” di se stesso è un’eterna relazione d’amore trinitario e ci invita a condividerla. La Vita Consacrata appare così come frutto di un disegno mirabile che ha la Trinità stessa come protagonista.

Ha, infatti, sorgenti cristologico-trinitarie (VC 14), è “spazio umano abitato dalla Trinità” e trova la sua migliore autorivelazione nella fraternità delle persone consacrate (VC 41), che sono spinte “a prendersi cura dell’immagine divina deformata nei volti dei fratelli e sorelle” e rivelano così il Mistero di un Dio che si mette a servizio dell’uomo (VC 75d).

Come persone consacrate, anche noi, missionari comboniani, riceviamo dalla Vita Consacrata così come sorge nel seno della vita cristiana, una serena consapevolezza della nostra identità e un fondamento sicuro per l’approfondimento della nostra storia a servizio di Dio-Amore, che dà il suo Figlio Unigenito, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (cf Gv 3, 16).

3. Significato globale dei Consigli Evangelici: RV 22; 10

La professione dei Consigli Evangelici esprime e concretizza la consacrazione di se stesso che il missionario fa a Dio Padre, in Gesù Cristo per dono dello Spirito Santo(LG 44a; PC 1d) e i1 dinamismo di servizio missionario che radica nella stessa consacrazione. Tale dono dello Spirito porta il cristiano ad assumere un «essere-in-Cristo», da cui nasce un «fare» da e per Cristo, e così ad avvicinarsi sempre più all’essere e al fare di Gesù, in una partecipazione alla totalità del suo Mistero (cfr. RV 20-21).

Il termine «professione» in primo luogo indica l’atto liturgico, e quindi pubblico e ufficiale in quanto accolto dalla legittima autorità, col quale durante la celebrazione eucaristica si assume l’obbligo di praticare i consigli evangelici. In secondo luogo indica la testimonianza pubblica, che supera l’atto pubblico ufficiale, ed implica il fatto che l’osservanza dei consigli evangelici deve essere percepita pubblicamente, cioè deve avvenire in modo aperto davanti alla Chiesa e alla società, con una certa separazione dal mondo.

In effetti, la professione religiosa favorisce il dinamismo della consacrazione-missione, introducendo le condizioni che permettono di vivere la consacrazione missionaria per il fatto che libera il cuore del cristiano, rendendolo disponibile per un amore totale ed immediato a Dio e ai fratelli.

In concreto, la professione religiosa favorisce il dinamismo della consacrazione missionaria, perché libera il cuore del missionario dagli obiettivi intra-terreni egoisti e personali, benché legittimi, e lo lancia ad una consegna totale di sé a Dio e agli uomini.

Pertanto, la pratica dei consigli evangelici non è fine a se stessa, né innanzitutto è in funzione di qualcosa da fare, ma è una strada speciale dentro l’ambito della vita cristiana, cioè l’espressione di quell’atteggiamento interiore provocato dallo Spirito Santo che spinge e porta verso la perfezione della carità mediante la consegna di sé a Dio e ai fratelli nella Chiesa.

La rinuncia al mondo espressa con i voti, benché debba essere reale, tuttavia non è fuga, bensì il modo evangelico più radicale e significativo di mettersi in relazione col mondo. Emettendo i voti, i1 missionario religioso non distrugge la relazione con i beni di questo mondo, né con la società o con le persone; al contrario, queste relazioni prendono in lui una caratteristica che lo distingue dagli altri in virtù della consegna totale di sé a Dio e agli uomini. Mediante la “rinuncia” in essi espressa, i1 missionario non nega né si oppone ai valori storici ed umani, ma li supera, non lasciandosi schiavizzare dalla loro ambiguità, denunciando il loro falso potere e restituendo loro la giusta dimensione.

I voti, oltre ad un significato di separazione e di santificazione personale, hanno quindi una dimensione socio-ecclesiale, un carattere pubblico, per cui significano tanto l’annuncio dei valori evangelici, tanto la denuncia critica di situazioni sociali strutturate nel peccato e nell’ingiustizia, sia dentro la Chiesa come nella società civile.

I voti, pertanto, essendo espressione di una realtà interiore che supera gli impegni concreti che richiedono, se sono vissuti solo dal punto di vista giuridico, hanno una portata molto limitata e possono favorire perfino una vita imborghesita e contraria al senso dei voti stessi.

In effetti, i voti sono innanzitutto la manifestazione visibile di un impegno interiore di consegna incondizionata di se stesso per amore a Cristo che porta all’identificazione con la sua persona e la sua missione, e che i tre voti esprimono in modo peculiare, benché non esclusivo né completo. La consegna incondizionata per amore che i voti suppongono, si manifesta nella disponibilità senza condizioni della persona consacrata: è la persona tutta, in tutta sua affettività e capacità, che si dona a Cristo.

4. Consigli evangelici, contesto spirituale della Consacrazione a Dio per la Missione

La professione dei consigli evangelici è il contesto spirituale chiaramente delineato nella nostra Regola di Vita per vivere e approfondire la nostra adesione al Signore Gesù, che ci chiama a “rimanere con Lui e ad essere mandati da Lui nel mondo condividendoNe il destino (RV 20; 21.1).

Essa implica un dinamismo, un mettersi in cammino dietro il Maestro. La vita del missionario diventa allora itinerante, un “esodo”, “un cammino di fede nel mondo e per il mondo”, intimamente legato all’umanità in cerca di salvezza. Come il Signore, anche il suo discepolo-missionario non ha dove posare il capo ma, al tempo stesso, pur non avendo né casa, né campi, trova altre case e campi e fratelli e sorelle e madri (cfr. Mt 19,29). È questo il cammino, che da paesi e per strade differenti ha portato ciascuno di noi a formare un “piccolo cenacolo di Apostoli” nell’Istituto Comboniano, che rende visibile la nostra condizione di itineranti, discepoli-missionari del Signore Gesù. Questo nostro camminare dietro il Signore Gesù vergine, povero e obbediente, rende visibile al mondo e per il mondo che noi siamo di Dio, che viviamo nel mondo e per il mondo ma non siamo del mondo. Il camminare così dietro il Maestro implica, dunque, un cammino di liberazione da assumere progressivamente fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo (Ef 4,13). In un mondo che si affida ostinatamente a certezze materiali, che è aggrappato a sicurezze terrene, il nostro “esserci” non solo indica un’altra via, che è la via della fiducia in Dio e della solidarietà con questa umanità ferita, ma noi stessi siamo “via” per altri, segno dell’Invisibile nella storia, che è Presenza liberatrice.

5. I tre consigli nella totalità della vita cristiana

È ovvio che la professione dei tre voti non vuole essere la restrizione del proposito dei consacrati alla pratica di quei tre aspetti della sequela di Cristo con esclusione degli altri. Per esempio, la professione della povertà non dispensa dalla pratica della pazienza, dell’umiltà, della carità fraterna; né la professione dell’obbedienza sottrae alla pratica della giustizia. L’esistenza consacrata non è una riduzione o una semplificazione della vita cristiana, bensì un modo particolare di realizzarla, sotto l’azione dello Spirito Santo ed in vista di una missione da compiere. In questa modalità i voti sono come tre “cardini” attorno ai quali si polarizza il vissuto della sequela di Cristo.

Praticamente questo si verifica in qualunque altro tipo di vocazione cristiana.

6. Funzionalità della professione dei tre consigli

Tuttavia, nella pratica dei consigli evangelici è presente anche l’aspetto funzionale, perché è richiesto dalla missione inerente alla consacrazione che esprimono. Questo fa sì che per ogni famiglia di consacrati la realizzazione dei voti sia distinta secondo lo spirito e il carisma di ognuno e sia determinata nelle Costituzioni o Regola di Vita (RV 1; 10; 22).

La funzionalità dei voti assunta per se stessa in considerazione di un’attività apostolica da com­piere con più efficienza e staccata dal dinamismo teologale-cristologico della consacrazione, è insignifi­cante e trasforma la vita religiosa in un’impresa di apostolato che finisce in una contro testimonianza.

7. I Consigli Evangelici alla luce della Carità: RV 22.2; 58

Superamento della funzionalità in favore del dinamismo teologale dei voti

I consigli evangelici, a cominciare dalla verginità, costituiscono la base della vita religiosa, perché sono un modo di realizzare la carità di Cristo.

Il Concilio Vat. II ha introdotto l’esposizione teologale dei tre consigli evangelici nel n. 42 della LG, con un paragrafo totalmente dedicato alla teologia della carità.

Dopo una breve introduzione, esso tratta del martirio che viene presentato come «massima testimonianza di amore», «dono particolare concesso ad alcuni», come «dono insigne e suprema prova di carità».

Infatti, il martire è colui che, con la grazia di Dio e la sua forza, ha la ventura di poter rendere a Dio, con un solo atto, tutto ciò che è e tutto ciò che ha ricevuto, abbandonandosi a Dio suo creatore. Questa risposta d’amore lo identifica con il Maestro che ha accettato liberamente la morte per la salvezza del mondo.

Poiché questa forma di carità è stata riconosciuta e spiegata dal Concilio come la forma suprema sulla terra, la dottrina sulla verginità è quindi introdotta con il temine item (= parimenti). Dicendo che in modo simile al martirio, la santità della Chiesa è sostenuta dai consigli, tra i quali eccelle la verginità, il Concilio Vat. II ha voluto mettere in risalto la qualità di questa consacrazione totale di sé a Dio, frutto di un legame speciale di unione con Cristo nell’amore e forza di carità.

Questo diretto collegamento tra martirio e verginità consacrata si rifà alla dottrina patristica occidentale e orientale che, con singolare unanimità, ha presentato la verginità come un martirio incruento e come la forma di carità più nobile dopo quella tipica del matrimonio.

Allora il voto di verginità è l’atto con cui una persona che ha ricevuto tutto ciò che è necessario per farlo, offre tutto il suo essere a Dio, nel Cristo, per amore, per essere unita al Maestro nel suo amore verso il Padre e per l’umanità.

La verginità assunta per il Regno dei cieli appare come una forma nuova di carità, secondo la quale, con la grazia di Dio e con la forza dello Spirito Santo, una persona può dare tutta la sua capacità di amore a Dio e in Lui amare ciò che viene da Lui: l’umanità e la creazione. L’amore verginale per il Regno è l’amore della persona che si è innamorata di Cristo e vuole essere con Lui per condividere la missione di Lui e il suo stile di vita.

Possiamo dunque dire che un concetto veramente teologale dei consigli e dei voti li spiega alla luce della carità che è nel cuore del cristianesimo. Situandoli in questo contesto, ne sottolinea l’aspetto più importante che consiste nel vivere i consigli per tutta la vita nella donazione di sé fatta a Dio nell’amore, in seguito a un suo amoroso invito.

L’aspetto positivo prevale così sulla rinuncia (e sulla funzionalità) che è intrinsecamente legata al dono di sé a Dio. Sono infatti sacrificati dei valori umani autentici e preziosi, tra cui le ricchezze dell’amore coniugale e dei figli. Ma un tale sacrificio è apprezzato in quanto è visto come un «Sì» all’invito ad una forma di amore peculiare, che apra il cuore «al dare piuttosto che all’avere, o al prendere e al possedere; a perdere piuttosto che a trovare e a guadagnare; al perdersi piuttosto che ad assicurarsi e a guadagnare; al “sì”, piuttosto che al “sì”, ma… “.».

Ciò che risulta evidente, per tanto, è l’aspetto del dono di sé a Dio per amore, fatto con cuore indiviso e nel rapporto di amore con Cristo che ne deriva. Questo tende a sviluppare e a trasformare profondamente tutta la vita. La persona è in qualche modo spogliata di se stessa, perché Cristo diventa il centro, il tempio, la dimora. Una persona simile vive «di» Cristo come Cristo vive «del» Padre.

Un altro vantaggio di questa presentazione dei tre consigli evangelici sta nel fatto che essa offre il modo di intuirne più facilmente l’intrinseca e organica unità.

Infatti l’amore è per natura sua unitivo. Se dunque una persona si dona con amore verginale a Cristo, essa è perciò stesso portata a voler condividere la vita e la missione di Lui. Essendo però il Verbo divino incarnato per la nostra redenzione e perciò «da ricco che era si fece povero» (2Cor 8, 9) e «spogliò se stesso prendendo la natura di un servo … facendosi obbediente fino alla morte» (Fil 2, 7-8), è evidente che l’amore verginale porta necessariamente ad abbracciare le disposizioni di mente e di cuore di Cristo e quindi la povertà e l’obbedienza del Redentore, il che vuol dire scegliere per sé la forma di vita che egli volle seguire e così partecipare fino in fondo alla sua missione salvifica.

8. Intrinseca e organica unità dei tre consigli evangelici

I consigli evangelici, a cominciare dalla verginità, sono un modo di realizzare la carità di Cristo, « il quale vergine e povero, redense e santificò gli uomini con la sua obbedienza fino alla morte di croce» (PC 1c). Proprio perché esprimono quest’unico atteggiamento del Mistero del Cuore di Cristo (cfr. RV 3; 3.2-3), vanno considerati nella loro unità.

Gesù, Verbo incarnato per la salvezza del mondo, sceglie per sé il genere di vita verginale e povera (LG 46b) e presenta se stesso come un misterioso «sposo verginale». La sua scelta della verginità nasce dalla sua identità filiale e salvifica e dalla viva coscienza che ha di essa: Egli è il Figlio unico, inviato dal Padre a tutti gli uomini per realizzare l’Alleanza definitiva: «Questo è il mio corpo che è per voi; fate questo in memoria di me» (1Cor 11,23; Lc 22,19). Questo Gesù, Verbo divino fatto «corpo per noi», «da ricco che era si fece povero» (2Cor 8, 9) e «spogliò se stesso prendendo la natura di un servo… facendosi obbediente fino alla morte» (Fil 2, 7-8).

L’intrinseca e organica unità dei tre consigli evangelici trova il suo centro nel Mistero della morte in croce di Gesù. Infatti, Gesù nella sua vita terrena, amando fino alla fine (cfr. Gv 13,1), «ha radicalizzato nella sua morte in croce tutti i precetti della Legge nuova instaurata da lui stesso, giungendo fino alla radicalizzazione più totale della sua verginità, proprio per la totalità e l’esclusività dell’amore per il Padre e per tutti gli uomini; della sua povertà, in quanto si è spogliato di ogni sostegno umano ed ha sperimentato il senso dell’abbandono di Dio, dell’obbedienza, per aver tutto compiuto secondo il disegno del Padre, superando ogni tentazione di autonoma realizzazione».

L’indivisibile carità di Gesù che si esprime nella verginità, povertà e obbedienza, sono, per tanto, tre forme di vita intrinsecamente e organicamente unite, che si illuminano e integrano a vicenda.

Nella professione dei consigli evangelici si verifica la stessa unità intrinseca e organica, che contempliamo nella vita di Gesù vergine, povero e obbediente. La persona consacrata, in fatti, animata dallo Spirito Santo, partecipa alla carità salvifica di Cristo Gesù (PC 6; 8), mediante una donazione di sé che abbraccia tutta la vita (PC 1c). Per tanto, l’amore che unisce la persona consacrata al Signore Gesù è totale e immediato, è un rapporto di tipo sponsale, in cui ognuno dei consigli evangelici esprime un tratto caratteristico della sequela e dell’amore a Cristo, e include contemporaneamente gli altri, così che l’unità che intercorre tra essi supera largamente la loro distinzione.

In quest’ottica, la castità, la povertà e l’obbedienza non sono, propriamente parlando, tre atteggiamenti distinti di auto-consegna a Dio in Cristo, bensì tre aspetti di un’unica realtà, cioè una stessa ed unica donazione di sé vissuta da tre punti di vista differenti ed ugualmente totalizzanti. Essi si sovrappongono reciprocamente in un tutto unico, nel quale ognuno dei tre consigli rimane con la sua specificità solo e grazie all’unità con gli altri.

Per tanto, non si può essere casti senza essere poveri e obbedienti, non si può essere poveri se non si è casti ed obbedienti, non si può essere obbedienti se non si è casti e poveri; la vera castità consacrata include la povertà e l’obbedienza; la vera obbedienza si estende agli altri due. Cambiano solo i punti di vista. L’amor vero, infatti, è spogliamento e umiltà.

La castità si caratterizza soprattutto dal punto di vista della visibilità del progetto al quale dà corpo, fino al punto che ci sono autori che definiscono la vita religiosa come la professione della castità consacrata: niente più che la rinuncia ad una famiglia propria può dire con immediatezza che uno ha scelto di centrare la sua vita in Dio e nella missione che gli affida. Tuttavia, molti celibi non sono consacrati: la castità ha bisogno degli altri due elementi per esprimere il suo contenuto in tutta la sua ricchezza e radicalità.

La povertà gode di un primato di sostanza: in effetti essa vuole proclamare l’Assoluto di Dio, quello che precisamente costituisce il programma specifico dei consacrati, significa inoltre la subordinazione di tutto quello che si possiede al carisma della propria famiglia religiosa; e qui c’è l’essenziale della consacrazione per la missione. Ma precisamente da qui nasce anche il dono del proprio cuore e del proprio corpo (castità), ed il dono della propria volontà (obbedienza). La povertà quindi non è davvero tale senza le altre due.

L’obbedienza, finalmente, più che gli altri due aspetti, chiarisce efficacemente che i1 dono di sé, effettuato nella consacrazione, non consiste semplicemente nell’offerta di qualcosa che uno possiede (il corpo ed i beni), bensì di tutto quello che uno è: quando una persona dà la propria volontà, lo dà realmente tutto; ma se lo dà tutto è incluso anche il contenuto degli altri due elementi.

D’altra parte, la rinuncia ad una famiglia propria potrebbe significare solo una fuga dai pesi della vita. La povertà potrebbe significare inerzia, resa, irresponsabilità di fronte ai bisogni e alle sfide della vita, oppure organizzazione efficientista dell’apostolato. L’obbedienza potrebbe essere indice d’immaturità, d’incapacità creativa o di paura di fronte ai rischi. Non si esce dall’ambiguità se non riconoscendo l’unità dei tre consigli evangelici in un insieme organico, la cui radice e linfa è la partecipazione alla carità salvifica di Cristo Gesù, « il quale vergine e povero, redense e santificò gli uomini con la sua obbedienza fino alla morte di croce» (PC 1c).

9. Non uno stato bensì un processo

La consegna incondizionata di sé per amore che i voti suppongono ed esprimono, si manifesta nella disponibilità senza restrizioni della persona consacrata; è la persona tutta, in tutta la sua affettività e capacità, che si consegna a Cristo.

Ma, dato che l’uomo non raggiunge in un modo immediato lo stadio definitivo della sua consegna nell’amore, ed ancor quando raggiunge un impegno totale, è sempre attraverso la vigilanza che riesce a mantenerlo, nella vita consacrata, la consegna iniziale di sé a Dio, professata in forma pubblica e definitiva nella professione perpetua, continua ad approfondirsi e radicalizzarsi anche esteriormente per mezzo di gesti sempre più impegnativi durante tutta la vita.

In effetti, i voti, dovuto all’impegno interiore che suppongono, non creano uno stato acquisito, ma iniziano un processo che attualizza giorno per giorno la consacrazione. Il religioso, per il voto di castità, inizia il processo di verginizzazione della vita; sarà povero, non tanto per la promessa fatta, quanto per la realizzazione concreta del distacco ogni giorno ed in ogni occasione. E la sua obbedienza sarà una ricerca ininterrotta della volontà salvifica di Dio senza mai raggiungerla pienamente durante la peregrinazione in questo mondo.

Il missionario religioso vive il dinamismo della consacrazione missionaria nella professione dei voti, quando è persuaso che “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo” (Gv 12,24), e che solamente spinto dall’amore potrà raggiungere quella disponibilità interiore fondamentale che lo rende capace di vivere esclusivamente davanti a Dio per gli uomini fratelli fino al fine.

10. Professione dei consigli evangelici e vita fraterna in comunità: RV 23; 30

La vita consacrata religiosa così come esiste nella Chiesa, è comunitaria, è vita in fraternità, anche se ammette vari stili di vita in comune.

La ragione fondamentale di questa forma di vita si trova al principio del cristianesimo, o meglio nell’esempio e nell’insegnamento di Gesù, che venne a salvare tutti i valori della fraternità.

Gesù venne per vivere come fratello degli uomini e per rivelargli la paternità di Dio verso tutti a partire della rivelazione di Dio-Trinità, e per offrire a tutti gli uomini la possibilità e la gioia di vivere come fratelli, lasciando ai suoi discepoli la missione di vivere e proclamare questa fraternità. (cfr. Gv 13,34-35; GS 32).

Questo ideale di fraternità fu inteso molto presto dai primi cristiani (cfr. At 2,4).

Una delle prime intuizioni della vita consacrata è stata quella di realizzare e conservare autentica e viva la fraternità della Chiesa primitiva. Successivamente, la vita religiosa, lungo i secoli, assunse differenti forme di vita; tuttavia, la vita comunitaria fu sempre considerata essenziale, perfino negli Ordini con carattere eremitico, con l’ideale desunto dalla primitiva comunità cristiana: una vita nella quale si cammina assieme nella comunità fraterna, a livello spirituale ed economico, per il servizio del Regno di Dio.

Noi, Missionari Comboniani, siamo una COMUNITÀ DI FRATELLI (RV 10-11) a pieno ed esclusivo servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa (RV 13).

La parola comunità, in senso stretto, esprime l’impegno di vivere costantemente in comunione tra noi e con ogni uomo-fratello.

Unità e Relazione, che è la vita intima della Santissima Trinità, costituiscono la dinamica del nostro stare assieme, che dà compimento alla preghiera di Gesù “che siano una sola cosa” (Gv 17,21; RV 36).

La comunità comboniana è composta da Sacerdoti e Fratelli, che formano una sola famiglia di consacrati a Dio per il servizio missionario (RV 11), così come la ideò il Fondatore, san Daniele Comboni (Cfr. Regole del1871, cap. I).

La consacrazione a Dio per il servizio missionario mediante la professione dei consigli evangeli di castità, povertà e obbedienza (RV 20 e 21), costituisce il fondamento della nostra comune identità, arricchita dalla diversità dei servizi in favore della missione.

La vita comunitaria, nel suo esistere, vuole essere annuncio e testimonianza, realtà e segno della Vita Trinitaria e del mistero della Chiesa, cioè della nuova umanità nata dallo Spirito.

Vogliamo essere comunità per essere missione, ed essere missione essendo comunità.

Ci mettiamo a servizio dei popoli ancora non evangelizzati, bisognosi di aiuto spirituale materiale, per essere segno dell’amore di Dio verso gli uomini. In effetti, il Padre mette nel Figlio l’universalità del suo Amore, che adesso vuole vivere in noi, mandandoci all’incontro degli uomini: « Andate e fate discepoli tutti i popoli » (Mt 28,19).

La salvezza portata da Gesù è offerta a tutti gli uomini e a tutto l’uomo. Come germe della Chiesa viva, siamo chiamati ad annunciare la Buona Notizia del Regno di Dio, facendo prima di tutto della nostra comunità ”un recinto di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di pace, affinché tutti trovino in essa un motivo per continuare a sperare”.

11. Professione e pratica dei consigli evangelici: RV 1; 10; 22; 58; 92.2

I consigli evangelici che professa la persona consacrata secondo la tradizione della Chiesa, sono la castità, la povertà e l’obbedienza, che riassumo le Beatitudini evangeliche che, a loro volta, esprimono la più generosa imitazione nella sequela del Signore Gesù (cfr. LG 42; RV 58).

Questa professione dei consigli evangeli i religiosi la fanno per mezzo dei voti (RV 22).

La professione dei consigli evangeli si radica e scaturisce dai Sacramenti del Battesimo, della Confermazione e dalla partecipazione all’Eucaristia, attraverso i quali Gesù unisce il missionario religioso al suo triplice potere – sacerdotale, regale e profetico – , facendolo partecipe della sua missione salvifica universale (RV 20.1; 51; 53).

Per tanto, la professione dei consigli evangelici, che fanno i Missionari Comboniani, realizza la vocazione ricevuta nei sacramenti dell’iniziazione cristiana, mettendoli a pieno ed esclusivo servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa, secondo il carisma d san Daniel Comboni (RV 1).

I Missionari Comboniani esprimono e vivono la loro consacrazione a Dio per il servizio missionario attraverso la pratica dei consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza, osservati con voto pubblico (cfr. RV 22).

La pratica dei consigli evangelici impegna costantemente ogni Missionario Comboniano fino al limite della sua generosità, secondo le esigenze specifiche del servizio missionario, come vengono determinate dalle costituzioni (cfr. RV 22).

La pratica dei consigli evangelici è la prima forma, per mezzo della quale ogni Missionario Comboniano realizza, in un modo radicale e significativo, la sequela di Gesù, Buon Pastore, e si trasforma in testimonianza-annuncio di Gesù nella attività evangelizzatrice tra coloro che ancora non sono stati raggiunti da quest’annuncio.

La professione dei consigli evangelici esprime il dono totale e definitivo, che ogni Missionario Combinano, in quanto membro della Chiesa, fa di se stesso nell’Istituto Comboniano per la evangelizzazione delle nazioni (cfr. RV 20; 22).

La pratica dei consigli evangelici costituisce la manifestazione e l’impegno pubblico, ed esprime la maniera concreta con la quale ogni membro dell’Istituto realizza la radicalizzazione del dono di sé a Dio per la Missione e, nello stesso tempo, esprime e consolida questo dono di sé davanti a se stesso e alla Chiesa.

La pratica dei consigli evangelici, quando è autentica, contribuisce per il vero progresso umano del missionario stesso e lo rende promotore del bene dell’umanità intera.

12. I luoghi evangelici, in cui radica e si sviluppa anche la vita consacrata religiosa comboniana

Nei nostri incontri, di fronte alla situazione attuale del mondo, della Chiesa e del nostro Istituto, ci viene da domandarci dove stiamo andando e ci sforziamo di trovare itinerari verso il futuro.

La domanda è molto simile a quella che Pietro ha rivolto a Gesù, quando, dopo la triplice professione di fede, interroga il Risorto sul futuro di Giovanni come discepolo: “Signore, e lui?” (Gv 21, 21). Si tratta di una domanda che Pietro rivolge a Gesù, mentre stanno parlando di missioni, di ruoli pastorali, di conclusioni della vita.

Conosciamo la risposta di Gesù che suona come un rimprovero e un monito: “Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi” (Gv 21,22).

«Queste parole sembrano comportare un certo ridimensionamento della funzione pastorale di Pietro. A lui è affidato il compito di pascere il gregge di Gesù, non il suo proprio. Affidate a Pietro, le pecore non cessano di appartenere a Gesù, come pure il destino finale di ciascuna di esse. Esse, infatti, sono tutte delle persone, ciascuna con un nome che, finalmente, solo l’Arcipastore sa pronunciare. Questi rimane al suo posto, senza dimissionare. La sua permanenza a capo della pesca condiziona e governa il ministero di Pietro. Oltre a ciò, qui abbiamo una risposta molto importante e preziosa su come si vive la comunione nella Chiesa di Gesù. La domanda di Pietro non è solamente la domanda di un capo che voglia conoscere tutto dei suoi sudditi, è piuttosto la domanda di un amico desideroso di rimanere con l’amico. L’amore di Gesù, in verità, non ci chiederà mai di non amare coloro che incontriamo nel cammino della vita, che amiamo e che ci amano, ma la maniera di amarci tra noi dovrà essere sempre condizionata dalla nostra sequela di Gesù, e mai viceversa. “Se tu, Pietro vuoi essere con lui, segui me”. La sequela di Gesù da vicino è l’unico modo di rimanere insieme per coloro che amano Gesù, e che Gesù ama. Gesù non è per loro un’occasione di stare insieme. Essi devono seguire Gesù, ognuno secondo il proprio nome, secondo la volontà di Dio che è differente per ciascuno. “Tu segui ME, mentre egli aspetterà ME, finché io venga. Non far dipendere la tua sequela di Me dall’aspettare che anch’egli venga con te. L’unico modo per voi di essere insieme è di essere con ME, seguire ME, aspettare ME, guardare ME. Così, anche la vostra amicizia sarà salva”» (Francesco Rossi de Gasperis, È risorto non è qui, p.123s).

Lo stesso vale anche per la nostra vita consacrata oggi. Pur occupandoci, e a volte anche “preoccupandoci”, del futuro della Missione e dell’Istituto, è vitale per noi interrogarci su dove sta, dove affonda le radici oggi la nostra vita consacrata, cioè quel “particolare stile di vita”, al quale i missionari comboniani “si impegnano, per attuare meglio il servizio missionario nella responsabilità e ed edificazione reciproche” (RV, Preambolo, ultimo paragrafo; RV 1).

Per rispondere a questa domanda, abbiamo bisogno di essere assidui frequentatori di quei luoghi nei quali la si può continuare a conoscere e vivere sempre meglio. Di conseguenza ci proietteremo verso un futuro che sarà frutto dell’autenticità della risposta al “Tu segui ME”, rivoltoci da Gesù nel nostro “oggi”.

Seguendo le indicazioni della nostra Regola di Vita, possiamo individuare cinque luoghi evangelici, da cui il missionario attinge continua ispirazione e a cui in nessun caso deve rinunciare.

Essi sono: 1) la parola di Dio (RV 47, 99); 2) la sequela di Gesù (RV 20-21); 3) la vita fraterna (RV 36); 4) la testimonianza (RV 58); 5) la missione (RV 56-57).

I primi due luoghi esprimono la dimensione verticale della vita consacrata missionaria, il terzo quello più sociale, il quarto quello più interiore e personale. Il quinto è quello missionario, al servizio della Chiesa e del mondo.

1. La parola di Dio e il missionario comboniano: RV 47; 99

San Daniele Comboni è per noi il migliore esegeta del Vangelo. Grazie alla sua intuizione carismatica, per noi comboniani e per molti credenti è possibile leggere e vivere la parola di Dio alla luce della Parola della Croce (Verbum Crucis), una Parola non-detta ma fatta, che emerge con potenza creatrice e coinvolgente dal Mistero del Cuore trafitto di Gesù, Buon Pastore ( RV 3-5).

Guidato da san Daniele Comboni, “il comboniano fa della Parola di Dio la sua preghiera fondamentale“ (RV 47), consapevole che ha un incessante bisogno di essere evangelizzato e di convertirsi, per mantenersi fedele alla propria vocazione (cfr. RV 99).

La Parola di Dio diviene il luogo evangelico della vita del missionario attraverso la preghiera personale e comunitaria.

Per raggiungere questa meta, il numero 49 della Regola di Vita propone al missionario comboniano la pratica costante di una preghiera personale esplicita che lo porti a trasformare tuta la sua vita e attività in una continua preghiera.

Infatti, «il missionario comboniano è chiamato a testimoniare e a proclamare l’amore del Padre, esperimentato nella comunione personale con Cristo, sotto la guida dello Spirito santo. Perciò focalizza la sua intera esistenza nell’incontro con Dio e forma con i suoi fratelli una comunità orante». (RV 46).

Perciò il missionario assume la responsabilità di confrontarsi con l’apprendistato e la perseveranza nella preghiera, organizzandosela personalmente nel ritmo delle giornate, alla luce dell’esempio dello stesso Gesù (RV 49), facendo perno nella continua evoluzione della sua vita personale (RV 41; 41.1-2; 81; 82; 82.1; 87; 99; 99.1).

La preghiera personale costante e progressiva (RV 49), integrata con la pratica del sacramento della riconciliazione (RV 54) e della direzione spirituale (RV 54.3), diviene allora la fonte da cui emana e si alimenta l’attività apostolica del missionario, costituisce il cammino unico perché una esistenza si centri in Dio (RV 46) e faccia dell’evangelizzazione la ragione della sua vita (RV 56).

Facendo leva sulla preghiera personale (RV 49), il missionario si apre alle ricchezze della preghiera liturgica (RV 51), della liturgia delle ore (RV 52) e soprattutto dell’Eucaristia (RV 53), della preghiera missionaria (RV 48) e comunitaria (RV 50), all’interno della comunità religiosa, che vuole essere « una comunità orante» (RV 46), e con il popolo di Dio (RV 48.3-4).

“Perciò ogni comunità pianifica la propria vita di preghiera secondo i tempi liturgici, stabilendo il programma quotidiano settimanale, mensile, che rivede periodicamente” (RV 50b)

I frutti di questa esperienza spirituale saranno l’apprezzamento e la valorizzazione della religiosità popolare (RV 48.5), la comprensione dei segni dei tempi (RV 16; 48.4) e l’azione divina nella storia e nella cultura dei popoli; il culmine di questi frutti è la proclamazione dell’amore del Padre nel Mistero di Gesù di Nazaret (RV 20; 46; 56-57; 59).

2. Alla sequela di Cristo, Parola donata dal Padre: RV 20-21

L’ascolto della Parola di Dio conduce e mantiene il missionario perseverante nella sequela di Gesù. Per fare di Cristo il “luogo evangelico” della sua consacrazione missionaria, “il missionario pone al centro della sua vita il Signore crocifisso, risorto e vivente”, assumendo come modello l’apostolo Paolo, il quale visse «nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20), e come Paolo convinto “che la potenza di Cristo si rivela nella debolezza dell’apostolo” (RV 4.1). Seguire Gesù è dare il primato assoluto alla persona di Gesù, è “dimorare nell’amore” di Gesù (Gv 15,9).

Per dimorare nell’amore di Gesù, san D. Comboni ci invita a “tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente, e procurando di intendere ognora meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime” (S 2721).

3. La vita fraterna: riconoscersi fratelli, uniti nella diversità: RV 36

Il n. 36 della RV mette a fuoco le ragioni della vita comunitaria nell’Istituto Comboniano; attribuisce l’origine della nostra vita comunitaria all’iniziativa dello Spirito Santo attraverso l’ispirazione originaria del Fondatore e la considera non come un’aggiunta parallela al carisma della vita missionaria comboniana, ma come una dimensione essenziale di questa stessa vita.

In quest’ottica non trova consistenza la perplessità di coloro che pensano che il fondamentale della vita dell’Istituto è l’attività missionaria e che la vita comunitaria può e deve essere sacrificata in beneficio delle esigenze della attività apostolica. In realtà la vita comunitaria è una esigenza dell’apostolato ed è già in se stessa attività apostolica.

Infatti, ogni persona è chiamata a disimpegnare una missione particolare nella società (GS 24-25; Populorum Progressio, 15-17). È Dio stesso che determina la missione, il luogo e la modalità secondo la quale ognuno deve attuare la sua missione nella Chiesa. Il cristiano riceve una missione nella Chiesa e per la Chiesa a servizio del Regno di Dio. Un Istituto nasce in un contesto ecclesiale e come mediazione divina, e perciò costituisce un dono che Dio fa alla Chiesa (LG 43).

Per tanto, una vocazione di speciale consacrazione è autentica quando coincide con la missione o carisma di una determinata Congregazione, gruppo o comunità ecclesiale nella quale un cristiano si sente chiamato a viverla.

Dal momento che io verifico questa coincidenza, la mia vocazione personale diviene con-vocazione, e quindi comunitaria, cioè, condivisa e vissuta in comunione, partecipazione e corresponsabilità con molti altri, ugualmente chiamati e consacrati da Dio per la stessa missione.

La presa di coscienza di questa coincidenza è segno dell’autenticità della mia vocazione specifica che, per tanto, mi apre alla vita comunitaria.

Per questo il n. 36 considera la vita comunitaria un dono fatto al missionario dallo Spirito del Signore per mezzo dell’ispirazione originaria del Fondatore, che convocò i chiamati alla Missione per l’Africa, fondando l’Istituto “come un piccolo Cenacolo di apostoli”.

Per tanto, la nostra vita fraterna è luogo evangelico nella misura in cui ogni membro della comunità è consapevole di essere parte della comunità in virtù della chiamata divina (RV 20); nella misura in cui la loro comunione “trova il suo principio e modello nella Trinità, dà compimento alla preghiera di Cristo “che tutti siano una sola cosa”; è segno visibile dell’umanità nuova nata dallo Spirito e diventa annuncio concreto di Cristo: “siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che Tu mi hai mandato” (RV 36).

Nella misura in cui il modello ispiratore è l’unità del Padre e del Figlio (Gv 17, 21-23), la comunità si propone di vivere, in un luogo concreto, il mistero della Chiesa, un mistero di unità nella varietà e complementarietà dei doni e dei servizi (RV 37; 10-11), di donazione fondata sull’amore fraterno (RV 38). Ad alcune condizioni però, quali: l’impegno comune e prioritario all’ascolto e obbedienza reciproca a Dio e ai fratelli con cui si cammina, la condivisione della preghiera, dei beni, la pianificazione, il lavoro, i momenti di sollievo (RV 39), il servizio di riconciliazione (RV 54).

4. La testimonianza a livello personale e comunitario con i voti religiosi: RV 22; 58

La professione dei voti religiosi è il risvolto più personale e interiore della vita consacrata, poiché tocca più da vicino affetti, volontà, realizzazione e maturità della persona.

Papa Francesco3 ci ricorda che nella vita del religioso i consigli evangelici sono i tre “cardini” della sua esistenza attraverso i quali egli si impegna a «vivere l’ “esodo” da sé in un cammino di adorazione e di servizio» o, usando il linguaggio della nostra Regola di Vita, di consacrazione per la missione.

Le sue parole su ognuno dei voti ci incoraggiano ad apprezzare e ad assumere con sempre maggiore generosità le indicazioni della nostra Regola di Vita.

La castità: RV 25, 25.3, S 2229

Il voto di castità appare oggi come un dimensione della vita inconcepibile e frustrante. Invece è un «carisma prezioso», che non passa di moda e che «che allarga la libertà del dono a Dio e agli altri, con la tenerezza, la misericordia, la vicinanza di Cristo. La castità per il Regno dei Cieli mostra come l’affettività ha il suo posto nella libertà matura e diventa un segno del mondo futuro, per far risplendere sempre il primato di Dio. Ma, per favore, una castità “feconda”, una castità che genera figli spirituali nella Chiesa».

Una fecondità, ancora, non semplicemente umana ma da vivere pienamente nella Chiesa e con la Chiesa.

L’ecclesialità, infatti, è «una delle dimensioni costitutive della vita consacrata, dimensione che deve essere costantemente ripresa e approfondita nella vita. […] L’annuncio e la testimonianza del Vangelo, per ogni cristiano, non sono mai un atto isolato. Questo è importante, l’annuncio e la testimonianza del Vangelo per ogni cristiano non sono mai un atto isolato o di gruppo, e qualunque evangelizzatore non agisce, come ricordava molto bene Paolo VI, «in forza di un’ispirazione personale, ma in unione con la missione della Chiesa e in nome di essa» (Esort. ap.Evangelii nuntiandi, 80)».

La povertà: RV 27; 29; 61.3

Nel contesto attuale la povertà rappresenta una sfida formidabile ed è un tema caro a Papa Francesco. Essa è «superamento di ogni egoismo nella logica del Vangelo che insegna a confidare nella Provvidenza di Dio. Povertà come indicazione a tutta la Chiesa che non siamo noi a costruire il Regno di Dio, non sono i mezzi umani che lo fanno crescere, ma è primariamente la potenza, la grazia del Signore, che opera attraverso la nostra debolezza. «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza», afferma l’Apostolo delle genti (2Cor12,9).Povertà che insegna la solidarietà, la condivisione e la carità, e che si esprime anche in una sobrietà e gioia dell’essenziale, per mettere in guardia dagli idoli materiali che offuscano il senso autentico della vita. Povertà che si impara con gli umili, i poveri, gli ammalati e tutti quelli che sono nelle periferie esistenziali della vita. La povertà teorica non ci serve. La povertà si impara toccando la carne di Cristo povero, negli umili, nei poveri, negli ammalati, nei bambini».

Papa Francesco sottolinea, dunque, che la povertà non è solopovertà materiale, ma è pure «indicazione a tutta la Chiesa che non siamo noi a costruire il Regno di Dio, non sono i mezzi umani che lo fanno crescere, ma è primariamente la potenza, la grazia del Signore, che opera attraverso la nostra debolezza».

Inoltre la povertà non deve diventare un’ideologia. «La povertà teorica non ci serve. La povertà si impara toccando la carne di Cristo povero, negli umili, nei poveri, negli ammalati, nei bambini», ma anche in tutti coloro – non sempre poveri in senso materiale – «che sono nelle periferie esistenziali della vita» e che sono vittima degli «idoli materiali che offuscano il senso autentico della vita».

Per tanto, il voto di povertà più che un aspetto ascetico o una opzione ideologica, esprime la nostra ricchezza che è Cristo, il nostro essere parte di una fraternità, il rifiuto della ricchezza, l’essere parte dei poveri.

– Cfr. Verso il Fondo Comune Totale (FCT). Identità e appartenenza. Inserto preparato dalla Commissione per la Formazione permanente, Notiziario. La voce del Consiglio, 2/2013.

L’obbedienza: RV 33.1.3, 35.4; 42.

L’obbedienza diviene luogo evangelico che tiene insieme consacrazione e missione nella misura in cui ogni persona consacrata, indipendentemente dal ruolo, obbedisce alla parola di Dio e si sottomette ad essa.

L’obbedienza, infatti, è «ascolto della volontà di Dio, nella mozione interiore dello Spirito Santo autenticata dalla Chiesa, accettando che l’obbedienza passi anche attraverso le mediazioni umane». Non avrebbe senso parlare di una generica «obbedienza» a Dio e allo Spirito Santo che ignorasse la «funzione mediatrice» del Magistero, del Papa, dei vescovi. Perciò «ricordate che il rapporto autorità-obbedienza si colloca nel contesto più ampio del mistero della Chiesa e ne costituisce una particolare attuazione della sua funzione mediatrice».

– Cfr. CIVCSVA, Il servizio dell’autorità e l’obbedienza nella Vita Consacrata. Faciem tuam, Domine, requiram. Istruzione, 11 maggio 2008

5. La Missione: servizio missionario: 56-71

La consacrazione missionaria è luogo evangelico perché in essa la persona consacrata assolve il mandato del Maestro:«Andate e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli … (Mt 28,19); «Andate in tutto il mondo ed annunciate l’Evangelo a tutta la creazione» (Mc 16,15).

Queste due formulazioni del mandato missionario ci indicano che non esiste soltanto il rapporto tra l’uomo e Dio e quello tra un essere umano ed un altro essere umano, ma anche quello tra uomo e mondo-giardino di Dio (Gen 1-2), così anche il rinnovamento dell’umanità attraverso il dono dello Spirito deve produrre un rinnovamento del mondo.

Tale rinnovamento non è riducibile ad un’attività dei cristiani in soli termini sociologici ed economici, ma tale attività deve essere frutto dell’impegno spirituale del cristiano. In questa prospettiva san Paolo parla della vita dei cristiani risorti nel mondo: Rom 8, 19-11.

«Non i soli esseri umani, dunque, attendono la redenzione, ma tutto il creato. La creazione intera, infatti, si trova in uno stato di caducità (vanità), dal momento che le cose del mondo sono rese schiave di una corruzione, perché, nelle mani degli esseri umani peccatori, esse vengono private o impoverite del loro senso. Noi viviamo oggi in un mondo di cui in gran parte non percepiamo più il senso vero a causa del peccato umano, che lo sottomette all’insensatezza. Quando pecchiamo, svuotiamo di senso la creazione e le cose delle quali ci serviamo, facendo arbitrariamente violenza al nome che è il loro e che rispetta l’intenzione del loro Creatore. Il nostro peccato inquina il mondo molto più del petrolio, per l’abuso che fa delle cose belle e buone create da Dio.

In questa situazione di assoggettamento, la creazione geme e soffre sino a oggi nelle doglie del parto, e attende impazientemente di essere liberata dalla schiavitù della corruzione e di entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio, i quali finalmente la usino nel senso che le è stato assegnato dal Creatore. Il parto atteso con ansia e nel dolore è quello che dà alla luce il Figlio di Dio, il quale, apparendo dall’interno della stessa creazione sottomessa al non senso, la rispetti e la interpreti secondo la mente e la volontà di Dio, liberandola e restituendola alla sua bellezza. L’apparizione di Gesù in seno a questo mondo corrotto, di cui ha patito la schiavitù della corruzione fino alla morte di croce, da cui è gloriosamente risorto, ha cominciato a disinquinare il mondo dalla sua insensatezza. L’accrescersi graduale e progressivo dei discepoli del Risorto che, possedendo in sé le primizie del suo Spirito, diventano figli di Dio dietro il Figlio e nel nome del Figlio (cfr. Gv 1,12-13), porta a compimento l’impresa della liberazione e della redenzione, prima di tutto dei loro corpi, e poi di quella porzione di creazione che a essi è assegnata attraverso il loro corpo, e che essi sono mandati a reinterpretare secondo la verità del suo senso. Prendono così il loro pieno significato i segni compiuti da Gesù (il camminare sulle acque, la tempesta sedata, le cacciate dei demoni, le guarigioni degli infermi, ecc.) e anche i segni che accompagneranno i credenti, dei quali parla Marco (16,17-18). Questi segni non vanno presi come fenomeni magici da fiera, che i fedeli compiranno, ma come un raddrizzamento e una reinterpretazione sensata della creazione liberata dalla schiavitù. Allora capiamo anche Francesco che, come figlio di Dio, sa muoversi tra gli uccelli e i lupi, perché anche gli uccelli e i lupi soffrono di questa schiavitù, e un figlio di Dio non ha paura di liberare la creazione dal suo inquinamento.

La risurrezione di Gesù mette in opera un movimento in seno all’universo che è l’Evangelo operante con forza nel mondo (Rm 1,16-17). Questa è l’economia della redenzione escogitata da Dio. Non si tratta di individui che esercitino intorno a sé degli influssi psichici sempre più ampi. Si tratta del fatto che al centro del mondo e della storia c’è il Signore Gesù risorto dai morti, il quale è il Figlio di Dio che da solo può entrare fino in fondo alla morte e trasformarla, e solamente chi lo segue, può trovare in lui l’energia per rinnovare il mondo.

In questo senso, la risurrezione di Gesù è la speranza dell’universo e la trasformazione in corpo spirituale verso cui il nostro corpo cammina, è anche il destino di tutta la realtà. Stiamo andando verso una trasfigurazione, una metamorfosi, che concerne non i soli esseri umani, ma il mondo intero, perché dove ci sono uomini c’è pure il mondo, che è la risultante delle relazioni delle persone tra loro e con Dio. La liberazione non deve essere annunciata soltanto agli esseri umani, ma a ogni creatura, a tutto il creato. “Andate in tutto il mondo e annunciate l’Evangelo a tutto il creato!”. Come? Rinnovando gli uomini, facendo crescere nel mondo i figli di Dio. Camminando, vivendo e morendo da figli di Dio in questo mondo si restituisce a esso il suo senso e si libera l’universo dalla schiavitù. Non si liberano gli esseri umani dalla schiavitù rinnovando e umanizzando il mondo, ma silibera e si umanizza il mondo rinnovando gli uomini. Questa è l’economia di Dio centrata sul Figlio fatto uomo e sul suo Spirito effuso sulla creazione, mediante la Chiesa del Figlio». (Francesco Rossi de Gasperis, È risorto, non è qui, pp. 154-156).

La Regola Vita, nei numeri 56-71 dedicati all’«Evangelizzazione», riafferma ed esplicita la ragione dell’esistenza dell’Istituto Comboniano, che è precisamente l’evangelizzazione, quale primo servizio che la Chiesa deve all’umanità.

L’Istituto Comboniano esiste perché ci sono «popoli o gruppi umani non ancora o non sufficientemente evangelizzati» (RV 13), perché il mondo ha bisogno di «solidarietà» (RV 60) per una «liberazione integrale» (RV 61) ed è l’Istituto che «attua il suo fine inviando i suoi membri, dove si richiede un’attività missionaria conforme al carisma del Fondatore» (RV 14), che si incentra sui «più poveri e abbandonati… specialmente riguardo alla fede» (RV 5).

Il missionario comboniano fa dell’evangelizzazione la ragione della propria vita ed è inviato dalla Chiesa mediante l’Istituto in cui è inserito (RV 56 e 14). Ma non è inviato solo, giacché «i missionari comboniani vivono in comunità locali rette da un superiore locale» (RV 103), perciò «ogni missionario è assegnato a una comunità locale dalla competente autorità » (RV 110).

Per tanto, il legame con la comunità non si spezza al momento dell’invio in missione, al contrario, trova il suo prolungamento naturale. Il missionario comboniano, infatti, evangelizza a partire dalla comunità religiosa (RV 13.2; 14; 103; 110), dalla sua appartenenza all’Istituto in vista di formare comunità di credenti (RV 62): dalla comunità religiosa per formare comunità di cristiani.

Questo piano sarà realizzabile nella misura in cui il missionario comboniano vive nella consapevolezza che è chiamato ad assumere la missione della Chiesa ispirandosi alla testimonianza di vita di Daniele Comboni (RV 1) e unendosi al modo di viverla «di quei missionari la cui vita ha offerto la migliore esemplificazione del carisma originario» (RV 1.4) e dei Comboniani di oggi (RV 13; 13.1.2) e così vive la sua appartenenza all’Istituto non solo giuridicamente, ma anche e soprattutto, affettivamente, come una vera mistica missionaria.

A proposito di “mistica missionaria”, è opportuno chiarire il termine.

In effetti, il termine “mistica”, come del resto quello di “missione”, non ha un significato preciso, univoco; con esso si indicano esperienze umane differenti. Oggi con estrema facilità si abbina il vocabolo a infinite specificazioni e si sente parlare di “mistica della scienza”, “mistica filosofica”, “mistica del tempo libero”, “mistica del mercato”, “mistica del lavoro”, ecc. Quando il termine “mistica” è abbinato ad una attività umana come il lavoro, indica uno sforzo applicato con costanza per ottenere un determinato risultato, superando gli ostacoli che vi si frappongono.

In senso cristiano, la mistica viene definita come “l’esperienza diretta e passiva della presenza di Dio” (Albert Deblaere).

C’è subito da notare che «essere passivi sotto l’energica azione di Dio non significa diventare degli inattivi». Il mistico cristiano è una persona che vive con la testa in cielo e i piedi per terra, vive nella consapevolezza di ricevere tutto da un Altro e questa passività genera in lui un’attività incontenibile nella logica della gioia della condivisione del dono ricevuto; perciò la sua esistenza è “pendolare”, cioè costantemente oscillante tra il dono ricevuto e l’impegno nella storia. Proprio come avvenne in Comboni e in tanti altri missionari che hanno vissuto la loro vocazione seguendo le sue orme.

Per tanto, la mistica è essenzialmente esperienza dell’unione personale con Dio attraverso Cristo, sotto l’azione e la guida dello Spirito Santo, percepita nella fede come una realtà che tutto pervade e che spinge alla conversione e all’azione. La conversione è il primo passo nella via della mistica ed «è il decidersi per Cristo in risposta a una chiamata e all’annuncio della Parola. Non è un’azione umana ma un evento di grazia, di elezione, una risposta di obbedienza a una parola contestatrice, una parola detta nella storia di una persona».

Questa visione, che ci richiama l’esperienza carismatica di san Daniele Comboni (S 2742), possiamo scorgerla alla base dei nn. 20, 46, 56-57 e 99 della Regola di Vita. Da notare che nel n. 99 il missionario appare come costante destinatario dell’annuncio della Parola, per mantenersi fedele alla sua iniziale conversione e quindi alla missione (RV 99).

Per tanto, con il termine “mistica missionaria” indichiamo un’intensa vita interiore marcata dall’esperienza di Dio in Cristo ispirata al carisma del Fondatore, da cui nascono convinzioni condivise dai membri della comunità, che modellano la vita dei singoli e della comunità e motivano a fare insieme scelte prioritarie per realizzare determinati obiettivi nell’ambito della vita e della finalità dell’Istituto Comboniano “alla luce dei segni dei tempi” (cfr. RV 1).

13. Consacrazione per la Missione in Daniele Comboni

La vita di Comboni è una vita di consacrazione a Dio per la missione, vissuta nella sequela di Gesù secondo i consigli evangelici. Tornando alle nostre origini, troviamo un Comboni che “si consacrò all’Africa” (S 4083) con un voto personale che doveva innervare e sostenere tutta la sua vita e che visse “votato all’Africa” (S 1424) fino alla morte.

Nell’itinerario spirituale del Comboni è facile cogliere il nesso profondo esistente tra vocazione, consacrazione e missione. La sua totale appartenenza a Dio, infatti, si manifesta nella sua totale dedizione all’Africa; l’Africa a sua volta lo spinge sempre più verso un totale abbandono di sé a Dio, dal quale ha ricevuto in dono l’Africa da rigenerare. Questa reciprocità tra consacrazione e missione caratterizza la sua esperienza vocazionale dall’inizio alla fine.

La sollecitudine di Comboni per le sorti dell’Africa rivela la profondità del dono di sé a Dio, vissuto come partecipazione all’amore casto, povero e obbediente del Cuore di Gesù per la Nigrizia. Non è difficile individuare nell’Omelia di Khartoum gli elementi di una formula di consacrazione missionaria mediante la professione dei consigli evangelici. Essa può essere considerata come l’inno dell’amore casto di Comboni per la Nigrizia; un amore casto, vissuto in povertà ed obbedienza, così come l’ha imparato dal Cuore di Cristo: S 3156-59.

Comboni vive la castità come totale donazione di sé alla Missione nell’Amore che abita il suo cuore, come un lasciarsi abitare dall’Amore irradiandolo sulle persone che Dio gli affida.

La povertà la vive come solidarietà con il suo popolo; ciò che egli è e ciò che ha, appartiene al popolo ed il popolo appartiene a lui. Anche la povertà è vissuta da Comboni come irradiazione dell’amore di Dio che arde dentro il suo cuore verso i “poveri neri” e diviene sua compagna inseparabile nel servizio missionario. Abitato dall’amore di Dio e perciò libero da ogni ricchezza, da ogni paura e da ogni affetto, Comboni non può vivere che per l’Africa: S 1185.

L’obbedienza la vive fondamentalmente come obbedienza alla vocazione, cioè come fedeltà a Dio nel servire il popolo che Egli gli affida attraverso la Chiesa; un obbedienza che si traduce quindi in attenzione, ascolto e obbedienza al popolo di Dio nelle sue necessità. Questa obbedienza “cieca” in Comboni è fedeltà a se stesso, a ciò che egli è in virtù del suo “sì” alla vocazione ricevuta, è autenticità di vita a cui non può rinunciare (S 1071).

L’obbedienza che nasce in Comboni come fedeltà alla vocazione ricevuta, egli la vive in comunione con l’autorità della Chiesa, sua “signora e madre” (S 7001), e all’insegna delsacrificio, dell’intelligenza e della creatività, che esigono un esercizio maturo della libertà personale: “La lacrimevole miseria dei poveri Negri pesa immensamente sul mio cuore, e non v’è sacrifizio ch’io non mi senta disposto ad abbracciare, per il loro bene. Se l’Em. V. non approverà un Piano, io ne farò un altro: se non accoglierà questo, ne apparecchierò un terzo, e così di seguito fino alla morte” (A Barnabò, S 1011).

14. La proposta di Comboni ai suoi missionari

San D. Comboni, missionario consacrato all’Africa, cerca e accetta compagni con cui condividere questa sua consacrazione. Egli, quindi, partecipa in prima persona nel piano di vita da lui pensato e proposto ai suoi missionari; il Capitolo X delle Regole del 1871 può essere considerato come una condivisione della vita di consacrazione missionaria vissuta da Comboni Fondatore. Comincia così la gestazione del suo Istituto con la finalità di annunciare il Vangelo ai popoli dell’Africa.

Ai candidati propone un cammino di consacrazione missionaria, formando insieme “un piccolo Cenacolo di Apostoli per l’Africa”, cioè vivendo nella sequela di Gesù secondo i consigli evangelici alla maniera degli Apostoli, animati dalla forza della carità fraterna e dallo “impeto” apostolico, e sostenuti col tenener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo Crocifisso (cf. Regole 1871, Capp. I e X).

Nelle Regole del 1871 il genere di vita proposto da Comboni ai suoi missionari, anche se non è legato alla forma giuridica della consacrazione religiosa e perciò è ”senza voti”, tuttavia è pensato in riferimento al contenuto della consacrazione religiosa, perché sia una dedizione totale alla causa della rigenerazione della Nigrizia. A Comboni interessava in modo particolare questo contenuto, perché da sempre nella storia della spiritualità la consacrazione religiosa era considerata come un secondo martirio. San Daniele Comboni dava così un nesso intrinseco tra la vita spirituale dei suoi missionari e il loro apostolato.

La professione dei voti, per tanto, non è un semplice vincolo giuridico che lega il missionario all’Istituto come un operaio alla impresa che gli dà lavoro, ma costituisce la base teologica ed evangelica dell’impegno personale e comunitario, che diviene continua spinta nell’incontro con Dio in Cristo (cfr. RV 46) e quindi nel seguire e conformarsi al Cuore di Cristo e alla missione da Lui ricevuta (Cfr. RV 3; 21-22).

In quest’ottica si può notare come Comboni, pur non avendo dato fin dal principio al suo Istituto una struttura religiosa, in realtà la consacrazione missionaria vissuta e proposta da Comboni era inclusiva di quella legata ai voti religiosi e nello stesso tempo più radicale per via di quella disponibilità, nello spirito della croce, a morire a ogni istante «per la salvezza degli africani»: infatti «quelli che ne fanno parte — precisava — devono avere tutte le virtù dei religiosi e quella di essere ad ogni istante disposti alla morte per la salvezza degli africani» (S 5984)..

Questa forma di vita missionaria consacrata vissuta e proposta dal Comboni, che fin dall’inizio era ben definita nella sua dimensione spirituale, aveva bisogno di esprimersi e crescere in una forma istituzionale stabile, in modo da assicurare la possibilità di vivere pienamente la consacrazione per la missione nella duplice dimensione della vita spirituale e della funzione apostolica.

Una prima fase verso questa stabilità furono le Regole che Comboni si prodigò di dare al suo Istituto, corroborandole con un giuramento per missionari sacerdoti e laici (S 5824), ma era certamente nel desiderio di Comboni che questa prima fase fondazionale potesse concludersi col «mettersi in mani di padri scelti della Compagnia di Gesù, i quali pure, perché pratici di Missioni, avrebbero da comporne la costituzione alla quale ogni membro avrebbe da legarsi con voto semplice e formare così una Congregazione di Missionari per l’Africa Centrale»4.

Allora si può pensare che la trasformazione dell’Istituto in Congregazione Religiosa, avvenuta nel 1885, è stato un evento che va colto non come un semplice fatto giuridico imposto dall’esterno, ma come un evento in una storia che si sviluppa: un evento che ci allaccia all’esperienza di consacrazione del Comboni, e con lui ci fa risalire allo slancio della donazione totale a Dio che si esprimeva nel Votum missionis e ci coinvolge nel rinnovamento della vita consacrata promosso dal Concilio Vat. II e dal successivo Magistero ecclesiale fino ad oggi.

In quest’ottica i “voti” religiosi che furono introdotti nell’Istituto Comboniano con le prime professioni nel 1887, conferiscono tutta la loro radicalità alla fedeltà e alla dedizione totale alla missione e quindi si collocano sulla linea di uno sviluppo positivo della forma di vita consacrata delle origini, vissuta già da Daniele Comboni e dai suoi missionari con lo slancio della pratica dei consigli evangelici.

Questo sviluppo è chiaramente visibile nell’attuale Regola di Vita, che in effetti ci porta a riscoprire le radici evangeliche, cristologico-trinitarie e missionarie della professione dei consigli evangelici e così superare una concezione puramente giuridico-funzionale dei voti nella vita religiosa, di cui il nostro Istituto ha sofferto e forse soffre tuttora le conseguenze.

Nell’ottica della RV, basata sull’esempio di vita del Fondatore e sulle sue parole, la consacrazione missionaria nasce nel comboniano come incontro con il Cuore di Gesù, che lo coinvolge nel suo amore al Padre e agli uomini (RV 2-5; 20; 46).

Illuminato dalla Carità del Cuore Trafitto di Cristo, il missionario fa l’offerta di se stesso a Dio per la salvezza delle anime. La spinta di questa Carità, ricevuta mediante lo Spirito Santo, lo porta a fare l’offerta di tutto il suo essere (corpo-mente-cuore), vivendo fino al martirio gli atteggiamenti del Cuore di Gesù: la sua donazione incondizionata al Padre, l’universalità del suo amore per il mondo e il suo coinvolgimento nel dolore e nella povertà degli uomini (cf. RV 3.2).

Il coinvolgimento nella Carità del Cuore di Gesù che, “vergine e povero, con la sua obbedienza fino alla morte di croce, redense e santificò il mondo” (cf. PC 1a; 14; RV 22), produce nel missionario un’irruzione di vita nuova nel Signore Gesù, che diviene in lui forza che attrae e trascina l’umanità verso Dio e impegno apostolico che dà alla carità del missionario le dimensioni del mondo.
P. Carmelo Casile
Casavatore, maggio 2013

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1 F. ROSSI DE GASPERIS /A. CARFAGNA, Prendi il libro e mangia! 2.Dai Giudici alla fine del Regno, EDB, p. 23.

2 Cf Lumen Gentium, cap. V, “L’universale vocazione alla santità nella Chiesa”, nn. 39-42.

3 Papa Francesco, , Discorso alle partecipanti all’assemblea plenaria dell’U. I. S. G. (8 Maggio 2013)

4 Cf. Consiglio Generale, Lettera per il Centenario delle prime professioni religiose 1887-1987, Roma 26 giugno 1987, p. 2