Martedì 5 giugno 2018
Questo ‘cielo’, questo ‘luogo bello’ in cui Dio ci chiama a vivere è quello spazio in cui prestiamo la nostra penna a Gesù, per scrivere assieme a Lui e a tutti gli uomini di buona volontà una storia di pace, riconciliazione e giustizia. Certo, scrivere questa storia significherà affrontare l’opposizione e la persecuzione delle forze dell’anti-Regno, significherà lottare e sopportare umiliazioni. Ma sarà una lotta e una sofferenza ‘bella’, perché ci aiuterà a rimanere umani e ad offrire ai nostri figli la speranza che sia ancora possibile vivere umanamente nella storia. [Fratel Alberto Degan].
CREDERE NEL ‘CIELO NUOVO’
La battaglia del linguaggio
“Il linguaggio può essere fonte di disumanizzazione quando è usato come veicolo di manipolazione, occultamento e menzogna. Chi vince la battaglia del linguaggio ha già vinto la metà della guerra” (Jon Sobrino).
E così, spiega il famoso teologo latinoamericano, si inventa la parola globalizzazione per nascondere la realtà che c’è dietro: capitalismo, capitalismo selvaggio a livello planetario. Perché la parola ‘globalizzazione’ ti fa subito pensare a un mondo sostanzialmente armonico e inclusivo. Mentre in realtà la globalizzazione - così come l’ha pensata il sistema dominante – è un mondo disumano ed escludente in cui pochi super-ricchi vivono sulle spalle di molti super-poveri.
Mentre esisteva il pericolo comunista – personificato dall’Unione Sovietica – il capitalismo fu disposto a riconoscere e ampliare i diritti dei lavoratori, per evitare che questi si lasciassero sedurre dalle sirene del socialismo reale. Questo, almeno, è ciò che avvenne in Occidente, perché in realtà nel cosiddetto III Mondo questi diritti continuarono ad essere selvaggiamente calpestati. Quando però cadde l’Impero sovietico-comunista, il sistema capitalista – ripresentatosi come ‘globalizzazione’ – cominciò una lenta ma inesorabile battaglia contro i diritti dei lavoratori anche in Europa e negli Stati Uniti.
Il presidente del Burkina Faso, Thomas Sankara, ucciso nel 1987, lo aveva profeticamente previsto: “Le masse popolari europee non sono contro le masse popolari africane, ma coloro che adesso vogliono depredare l’Europa sono gli stessi che hanno sfruttato l’Africa”. Per cui ciò che attenta alla sicurezza e alla vita delle masse popolari – in Africa come in Europa – è l’elite neoliberista che sta governando il mondo.
Sicurezza
E così arriviamo ad un’altra, fondamentale battaglia ‘linguistica’. Nel Contratto del nuovo Governo italiano la parola ‘sicurezza’ - uno dei bisogni primari dell’essere umano - viene usata solo in riferimento agli immigrati. In questo modo si vuol trasmettere l’idea che l’unico nemico dei poveri italiani, l’unica minaccia alla nostra vita e alla nostra sicurezza sono gli stranieri. Come se gli italiani – poveri e ricchi –vivessero tutti nelle stesse condizioni, come se fra loro non esistessero conflitti, disuguaglianze e ingiustizie! Non dimentichiamo che oggi il 20% più ricco della popolazione italiana possiede il 62% della ricchezza nazionale, mentre il 20% più povero possiede solo lo 0,5% delle risorse. Siamo dunque ben lontani dal vivere la stessa situazione!
In realtà il capitalismo ‘globalizzato’ nasce e cresce creando ‘insicurezza’. Come dice Noam Chomsky, “il successo della nostra economia e la bassa inflazione son dovuti alla crescente insicurezza del lavoratore. In questi ultimi anni i lavoratori si sono sentiti sempre più insicuri e intimiditi. Sapevano di trovarsi in una situazione precaria, e così hanno rinunciato a chiedere aumenti di salario. Di fatto, hanno accettato una diminuzione del loro livello di vita come male minore rispetto alla prospettiva di rimanere senza lavoro e dormire in strada. Quindi, sì, la nostra ‘economia’ non è mai andata così bene: i lavoratori accettano che siano tagliati i loro stipendi e i sindacati sono ridotti all’impotenza”. L’economia va bene, ma la gente sta male. Anche qui bisogna ingaggiare una battaglia sul linguaggio. Quando gli ‘esperti’ parlano di ‘economia’, in realtà si riferiscono all’elite neoliberista. Quindi l’economia va bene, cioè l’elite neoliberista è sempre più ricca, ma i lavoratori sono sempre più insicuri. E questo non è un risultato indesiderato di alcune manovre economiche. E’ esattamente ciò che prevede e vuole il nostro sistema.
La disoccupazione strutturale
Chomsky parla degli Stati Uniti, ma in Italia le cose non vanno molto meglio. In un’intervista rilasciata nel 2015, e che ora sta spopolando sui social network, l’onorevole D’Attorre, allora deputato del PD, riconosce che il job’s act è stato “un cedimento dell’Italia agli interessi di altre nazioni”, un provvedimento che potrà produrre solo “precarietà”. E spiega:“ Il vero obiettivo per cui il job’s act è stato imposto da Draghi a Renzi è la famosa deflazione salariale, cioè ci dicono: ‘Tu, Italia, non puoi competere con la moneta, perché sei bloccata nell’euro; non hai investimenti per ripartire; e allora l’unica chiave per recuperare competitività è abbassare i salari. E così, in questa strategia, è naturale che la disoccupazione deve rimanere alta”. Il deputato-filosofo ci spiega che Bruxelles ha deciso che in Italia il livello di disoccupazione non potrà scendere sotto il 12%: questo è “un obiettivo quasi dichiarato del nostro Governo”, e continua: “Uno dei parametri a cui siamo inchiodati è quello della disoccupazione strutturale”. L’elite capitalista che vuole controllare le istituzioni europee ha previsto che in Italia almeno un cittadino su 10 deve essere disoccupato. In questo modo, commenta Ilaria Biffini, “il lavoratore italiano sarà disposto ad accettare stipendi sempre più bassi, per creare così una concorrenza tanto sleale da far scendere sempre più in basso retribuzioni e tutele”.
Insomma, il capitalismo globalizzato si basa sull’insicurezza e sulla precarietà strutturale. E’ del tutto fuorviante, dunque, additare gli immigrati, i rifugiati e le vittime di guerra come causa della nostra insicurezza. Penso che su queste parole – sicurezza e insicurezza – è urgente avviare una campagna di coscientizzazione.
Certo, in Europa, per il momento, non si arriva al grado di violenza cui sono esposti tanti paesi dell’America Latina. In Colombia, ad esempio, negli ultimi due anni è stato ucciso un sindacalista o un difensore di diritti umani ogni settimana.
In Italia, però, esiste un altro tipo di violenza, quella causata dagli ‘incidenti’ sul lavoro, che ormai sono una vera e propria carneficina che si perpetra nella quasi assoluta indifferenza delle forze politiche. Secondo dati ufficiale dell’Osservatorio Vegam, nei primi quattro mesi di quest’anno ci sono stati 286 infortuni mortali sul lavoro. Ciò significa che muoiono per ‘incidenti’ sul lavoro 17 persone ogni settimana. Purtroppo, sulla sicurezza nel lavoro il nuovo Contratto di governo non spende nessuna parola.
Un’umanità liquida
Son passati ormai vari anni da quando Baumann denunciò la prevalenza – nella nostra società - di parole e di rapporti ‘liquidi’. Io mi sono scontrato frontalmente con la liquidità postmoderna quando sono tornato in Italia nel 2010 dopo tanti anni di America Latina. Nel 2011 cominciai ad usare Facebook, perché, mi dicevano, è importante stare dentro facebook per conoscere il mondo dei giovani. Io però usavo e uso ancora FB secondo una mentalità pre-digitale. Cioè, per me i mezzi informatici e le relazioni virtuali sono funzionali alle relazioni reali. Messaggi e abbracci scambiati per via virtuale, nella mia mente, dovevano poi portare ad abbracci e ad incontri reali. Ma dopo un po’ mi resi conto che per molti non era e non è così: le relazioni virtuali spesso sono viste como un fine in se stesse. Ma c’è di più: le relazioni reali spesso si fanno virtuali. Cioè, una parola reale, pronunciata face to face, spesso non significa niente, e non ha nessuna consistenza.
La liquidità delle nostre parole – che ha contaminato le nostre relazioni interpersonali – è ormai entrata con prepotenza anche nella politica. E la cosa più grave è che ormai tutto ciò non sorprende e non scandalizza quasi più nessuno.
Oggi circolano in rete video di personaggi politici o del mondo dell’economia che 2 o 3 anni fa dicevano esattamente il contrario di ciò che dicono oggi. Ma cambiare idea soltanto dopo 2 anni è già segno di una certa perseveranza e coerenza. Perché oggigiorno - e qui circolano altri video ‘impietosi’ – si cambia idea dopo solo due giorni o dopo solo due ore: davvero la parola non ha più nessun peso. Io lo chiamo modello-Berlusconi: fu lui il primo a dire una cosa oggi e a smentirla il giorno dopo. Allora la cosa ci colpiva e ci ‘scandalizzava’ un po’. Adesso no, ha vinto il suo modello: anche molti di quelli che parlano contro Berlusconi in realtà hanno assorbito il suo modo di fare e, per molti aspetti, hanno largamente superato il loro maestro.
Un’aria avvelenata
“Oggigiorno lo spirito umano respira un’aria avvelenata!”, afferma Jon Sobrino. Penso agli adolescenti che assistono a questo spettacolo di politici ‘liquidi’ che ogni giorno si rimangiano le proprie parole. Agli occhi dei nostri figli, questo è il modo normale di fare politica, e così il loro spirito si adatterà alla completa disintegrazione delle parole come cosa normale della vita.
Quanto al nuovo ministro dell’Interno, continua - anche dalla sua posizione istituzionale - ad usare un linguaggio violento pieno di insulti, chiamando ad esempio un ‘perfetto zero’ il sindaco di Riace, colpevole di aver ridato vita al suo paese grazie all’accoglienza di immigrati. E così, i bambini e adolescenti che ascoltano il ministro Salvini penseranno che l’insulto è la maniera normale di esprimere le proprie idee in politica, e non solo.
Recentemente, rispondendo a un amico che mi esprimeva tutto il suo scoraggiamento di fronte a questa situazione, ho terminato il mio breve messaggio dicendo: “Sempre uniti nell’amicizia e nella preghiera!”. Ho scritto queste parole di getto, e potrebbero sembrare una frase fatta, ma poi, riflettendoci, ho visto che è proprio quello di cui abbiamo più bisogno: l’amicizia e la preghiera. Amicizia significa relazioni vere, parole vere, e non parole liquide che domani si saranno già sciolte. E preghiera significa continuare ad aver fede nelle parole di Gesù, continuare a sperare - contro ogni speranza - che sarà il progetto di fraternità e giustizia di Gesù a dire l’ultima parola sulla storia dell’uomo.
L’uomo come ‘storiografo’
“L’uomo viene al mondo come libertà di essere storia”, afferma Demoustier. Non c’è nulla di predeterminato, nulla di irrimediabilmente perduto: Dio ci ha creati come esseri capaci di scrivere una nuova storia. Però ci lascia liberi, nel senso che non decide e non impone Lui la direzione verso cui lanciare il futuro. Nella sua umiltà, Dio può solo suggerire all’uomo quale sarebbe l’orizzonte più umano, ma poi è l’uomo che scrive la storia. E di questa scrittura della storia siamo tutti responsabili, nessuno può chiamarsi fuori. Certo, non è facile, neanche per Dio: quante volte, nella storia dell’uomo, Dio è stato umiliato!. “I campi di sterminio, la lista di tanti migranti annegati, il mais che si trasforma in combustibile davanti agli occhi affamati dei campesinos che lo coltivano… sono l’umiliazione del Dio creatore e delle persone che si impegnano nella creazione di una vita piena per tutti” (Benjamìn Gonzàlez Buelta). Nell’uccisione a colpi di fucile di un migrante maliano, Sacko Soumali, Dio è umiliato; nelle minacce che il nuovo ministro degli Interni rivolge a chi vuole salvare vite umane, Dio è umiliato.
Credo che si è aperta un’epoca storica in cui Dio e coloro che credono nel suo Regno saranno sempre più fortemente umiliati. Ma proprio per questo è importante, in questo periodo, saper soffrire per la giustizia (1Pt 3,13) e resistere saldi nella fede (1Pt 5,9). Resistere significa non considerare normale quest’aria avvelenata che sta inquinando il nostro spirito e disumanizzando il nostro cuore. Nel corso della storia coloro che hanno accettato di soffrire e di essere umiliati insieme a Dio hanno poi aperto gli orizzonti più luminosi per l’umanità.
Umanizzare l’umanità
Secondo Jon Sobrino, la Bibbia usa due espressioni per descrivere la missione umanizzatrice cui siamo chiamati: la prima si riferisce alla dimensione personale e relazionale (sarx, carne), e la seconda si riferisce a una dimensione comunitaria-escatologica, che ha anche una forte valenza politica: ‘cielo nuovo’.
San Giovanni afferma che “la Parola si fece carne” (Gv 1,14). La ‘carne’ è il contrario del ‘liquido’. La parola-carne, dunque, è una parola spessa, solida, consistente, è un amore che continua ad amare e a sperare anche nella sofferenza e nell’umiliazione: è l’unica parola che usa l’uomo che vuole rimanere umano.
Per quanto riguarda “il cielo nuovo e la terra nuova” profetizzati da Isaia (Is 65,17), non si riferiscono alla vita dell’al di là, ma a una vita terrena completamente rinnovata e trasformata a partire dalle relazioni interpersonali e dai rapporti sociali. Il “cielo nuovo” è l’aria pura che respira lo spirito umano in una comunità in cui è bandita “la violenza e la rapina” e in cui governa “il diritto e la giustizia” (Ez 45,9).
Credere nel “cielo nuovo”
A questo proposito, vorrei riprendere una delle idee centrali del mio libretto “Il comportamento bello”. Come sappiamo, il nome ‘Cristo’ è la traduzione greca dell’ebreo ‘Messia’. L’elemento essenziale del messianismo veterotestamentario era che Dio avrebbe mandato il suo Inviato per liberare il suo popolo e per cambiare la situazione dei poveri e degli oppressi, istaurando un Regno di pace e di giustizia. Questo stesso sogno messianico – arricchito adesso con la promessa della vita piena in Gesù Risorto - teneva viva la speranza dei primi cristiani, che aspettavano un “cielo nuovo e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia” (2Pt 3,13). ‘Cristiano’ significa ‘messianico’: noi siamo messianici perché crediamo in questo sogno che Dio ha voluto far nascere in mezzo al suo popolo, crediamo che questo ‘sogno’ - questo ‘cielo nuovo e terra nuova’ – è l’orizzonte e la speranza che configura la nostra vita. Purtroppo, osserva Jon Sobrino, noi abbiamo trasformato il titolo ‘Messia’ – con tutte le sue implicazioni escatologiche, sociali e politiche – in un innocuo nome proprio, come se ‘Cristo’ fosse semplicemente il cognome di Gesù: Gesucristo. In questo modo, abbiamo de-messianizzato il cristianesimo: abbiamo perso la fede nel ‘cielo nuovo’ e abbiamo sotterrato la fonte della nostra speranza.
Il “cielo nuovo”, il futuro cui appunta la Parola, non è una semplice proiezione ortogonale del presente, non è il semplice risultato di calcoli e proiezioni statistiche, ma è qualcosa di completamente inedito. Come ci ricordano vari teologi sudamericani, ci sono due modi di intendere l’utopia. Da un lato può essere intesa come ‘ou-topia’, che significa ‘nessun luogo’: qualcosa che non sta e non può stare da nessuna parte, una pura illusione o allucinazione. Ma dall’altro può essere intesa come ‘eu-topia’, che significa ‘luogo bello’, un luogo che non esiste ancora nella sua compiutezza ma che non è una semplice allucinazione: è qualcosa che possiamo costruire insieme a partire dalla sete di bellezza del nostro cuore di carne, a partire dal nostro profondo malessere di fronte all’aria inquinata che ci sta avvelenando e disumanizzando. La ‘globalizzazione’, cioè il capitalismo postmoderno, ha ridotto l’utopia a allucinazione, ci ha convinti che non esiste nessun futuro sostanzialmente diverso da questo presente. Dobbiamo allora riscoprire il senso profondo della nostra fede messianica (cristiana) e riaccendere la nostra speranza nel ‘cielo nuovo’ promesso da Dio.
Questo ‘cielo’, questo ‘luogo bello’ in cui Dio ci chiama a vivere è quello spazio in cui prestiamo la nostra penna a Gesù, per scrivere assieme a Lui e a tutti gli uomini di buona volontà una storia di pace, riconciliazione e giustizia. Certo, scrivere questa storia significherà affrontare l’opposizione e la persecuzione delle forze dell’anti-Regno, significherà lottare e sopportare umiliazioni. Ma sarà una lotta e una sofferenza ‘bella’, perché ci aiuterà a rimanere umani e ad offrire ai nostri figli la speranza che sia ancora possibile vivere umanamente nella storia.
Fratel Alberto Degan