Roma, martedì 4 settembre 2012
Padre Josep Maria Abella Batlle, 63 anni, superiore generale dei Missionari Figli del Cuore Immacolato di Maria (Claretiani), ha aiutato i 49 provinciali e membri della Direzione Generale dei Missionari Comboniani, riuniti in Assemblea Intercapitolare (2-22 settembre) a Roma, a riflettere sul tema “Missione e vita consacrata oggi”. Padre Abella ha un’esperienza missionaria di più di due decadi in Giappone ed è superiore generale dei Missionari Claretiani dal 2003.

 
Da destra Padre Josep Maria Abella Batlle e P. Alcides Costa.

Tutta la giornata di ieri, 3 settembre, è stata trascorsa con Padre Josep Maria Abella, superiore generale di oltre tremila missionari claretiani sparsi per tutto il mondo. Questo dà a Padre Abella una vasta conoscenza delle realtà attuali dei diversi continenti che sfidano oggi l’attività missionaria della Chiesa in generale e degli Istituti missionari in particolare.

Al mattino, Padre Abella ha condiviso con tutti i partecipanti all’Assemblea la sua visione di missione e di vita consacrata oggi, partendo dalla sua esperienza missionaria personale – è partito per il Giappone con soli 20 anni di età – e dalla sua esperienza di 18 anni nella Direzione Generale del Istituto Claretiano. Secondo Padre Abella le due preoccupazioni maggiori dei superiori religiosi devono essere l’avere a cuore le persone e mantenere vivo il proprio carisma. “Non c’è dubbio che, nella prospettiva evangelica, la missione del superiore maggiore è quella di curare i propri fratelli, di accompagnarli, cioè, nel loro cammino di crescita come persone consacrate, inviate a proclamare la Buona Novella del Regno. A questa missione fondamentale, è legata una responsabilità imprescindibile del superiore maggiore: mantenere vivo il carisma, quello della vita consacrata e quello del proprio Istituto”, ha detto. La frase più bella che ha trovato per definire la vita missionaria e religiosa è “passione per Cristo e passione per l’umanità”.

Dopo la conferenza di Padre Abella, c’è stato un momento di dialogo, con domande e commenti personali, con l’obbiettivo di approfondire il tema presentato della missione e vita consacrata, tenendo conto della realtà delle circoscrizioni comboniane. Nel pomeriggio, i superiori provinciali e i delegati si sono riuniti in gruppi per contestualizzare gli input del missionario claretiano.
La giornata di lavoro si è conclusa con la celebrazione eucaristica, presieduta da Padre Abella.
Di seguito pubblichiamo l’intervento di Padre Abella in aula (testo originale spagnolo in allegato).


Da destra P. Dário Balula Chaves e P. Josep Maria Abella Batlle.


I superiori provinciali e i delegati si sono riuniti in gruppi nel pomeriggio. 

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VIVERE AL SERVIZIO DEL REGNO
ALCUNE PREOCCUPAZIONI CHE HO COME SUPERIORE GENERALE

P. Antonio Villarino mi ha chiesto di parlarvi del tema Consacrazione-Missione. Gli ho detto che non sono uno specialista in teologia della vita religiosa. Ho comunque accettato, pensando che potrei condividere con voi quello che mi preoccupa e mi motiva in questo momento come superiore generale di un Istituto religioso missionario, riflettendo sul tema che mi è stato proposto. Non credo che ci sia bisogno di soffermarsi sui concetti teologici di consacrazione e missione. Mi sembra più importante affrontare il tema partendo dalla vita e vedere come questi ideali si convertano in sorgenti che danno senso e dinamismo alla nostra quotidianità.

Lo farò dalla prospettiva che mi è offerta dalla situazione del mio Istituto e dalla mia esperienza personale all’interno di esso. Sia il tempo che ho trascorso come missionario in Giappone come gli anni nel servizio di governo – prima come consigliere incaricato dell’apostolato dell’Istituto e, più tardi, come superiore generale – hanno plasmato il mio modo di vedere la realtà, di individuare le sfide che in essa scopro e il modo di affrontarle.

Sono consapevole del fatto che sto parlando a un gruppo di superiori maggiori, i quali potranno ampliare e correggere il mio contributo e questo, mi dà una certa tranquillità. E voglio partire proprio tenendo conto di questo dato, che considero fondamentale nella missione del superiore maggiore. Ci illuminerà nel momento in cui prospetteremo le sfide e cercheremo le linee principali che dovremmo avviare oggi.

Non c’è dubbio che, nella prospettiva evangelica, la missione del superiore maggiore è quella di “curare i propri fratelli”, di accompagnarli, cioè, nel loro cammino di crescita come persone consacrate, inviate a proclamare la Buona Novella del Regno. A questa missione fondamentale, è legata una responsabilità imprescindibile del superiore maggiore: mantenere vivo il carisma, quello della vita consacrata e quello del proprio Istituto. Il carisma è la ragione per la quale esistiamo nella Chiesa e nel mondo. Dio lo ha suscitato tramite i nostri Fondatori e continua a suscitarlo attraverso quanti si sentono chiamati a far parte della famiglia religiosa che è nata dalla sua mediazione. È un dono, un tesoro che abbiamo ricevuto dal Padre e che dobbiamo custodire con diligenza. Si tratta di un carisma che, come tutti gli altri, ha dei tratti permanenti e delle espressioni condizionate dalle circostanze storico-culturali. Bisogna allora saperlo rileggere e riproporre in ogni momento storico e nei diversi contesti culturali perché possa continuare a essere significativo e portatore di vita per coloro che hanno avuto la grazia di riceverlo e per quelli che devono ricevere i frutti dell’azione missionaria che esso suscita. Custodire la vitalità di questo carisma è una delle nostre responsabilità più importanti.

INTRODUZIONE AL TEMA

Nell’udienza che il Papa Benedetto XVI ha concesso ai superiori generali il 22 maggio 2006, dopo aver manifestato la sua gratitudine per il loro impegno a diffondere il “buon profumo di Cristo” (cfr. 2 Cor 2,15) nella Chiesa e nel mondo, ci ha ricordato che oggi abbiamo “la missione di essere testimoni della presenza trasfigurante di Dio in un mondo sempre più disorientato e confuso, un mondo nel quale le sfumature hanno sostituito i colori nitidi e genuini”. Il Papa ha detto che la caratteristica dei religiosi è la loro appartenenza al Signore al di sopra di tutto e ha spiegato che “appartenere al Signore significa bruciare del suo amore incandescente ed essere trasformati dallo splendore della sua bellezza”[1]. È questa la fonte alla quale deve bere la vita consacrata per compiere la sua missione profetica nel mondo d’oggi. È qui che si colloca il tema della consacrazione; è questo il senso della nostra vita, la sua profonda ragione d’essere: sappiamo di appartenere a Dio perché Lui ci ha chiamati e noi ci sentiamo davvero “privilegiati” da questa chiamata. È da questo che la nostra vita si presenta come risposta a questa chiamata, una risposta che si svilupperà in ciascuno degli ambiti della nostra vita e sarà conformata dal carisma specifico della comunità nella quale andremo a viverla.

Nel documento che raccoglie il cammino vissuto durante il “Congresso internazionale della vita consacrata”, organizzato dall’Unione dei Superiori e Superiore Generali, che si è svolto a Roma nel novembre del 2004, si afferma: “Il desiderio di rispondere ai segni dei tempi e dei luoghi ci ha portato a descrivere la vita consacrata come passione: passione per Cristo, passione per l’umanità”[2]. È un altro modo di esprimere il binomio inseparabile sul quale ruota tutta la nostra vita: consacrazione-missione.

Questa consacrazione ci unisce a Cristo, “l’Unto”, il “Consacrato”, e segna radicalmente il nostro modo di vivere: viviamo, come Gesù, unicamente per Dio e per la realizzazione del suo progetto, il Regno. Siamo stati chiamati a vivere al servizio di questo progetto con radicalità, assumendo la configurazione con Cristo nel suo modo storico di vivere interamente per Dio e per gli altri.

Questa risposta genera una vita caratterizzata da una forte passione per Cristo e per coloro per i quali Egli ha dato la sua vita. Però, si può essere appassionati a qualche cosa solo quando l’oggetto che giustifica questo sentimento è realmente al centro del nostro cuore e della nostra vita. È dunque Cristo, la sua passione per il Regno – il grande progetto del Padre – e la sua compassione per l’umanità, il centro integrante della nostra vita. È questo il fondamento sul quale si costruisce la nostra vita, si forgia la nostra fraternità e si articola la proiezione missionaria.

DOVE E COME CI TROVIAMO

La vita consacrata, risponde a questi ideali che ci propone il Papa e che noi stessi affermiamo nel Congresso come fondamentali affinché la nostra vita abbia oggi pienamente senso nella Chiesa e nel mondo? Molte analisi sono state fatte sulla vita consacrata, si sono scritti libri e articoli. Si sono poste molte domande, a partire dalle statistiche e dai nuovi modi di concepire la missione della Chiesa. In alcuni luoghi siamo stati dichiarati “malati terminali”. Sono proprio i luoghi in cui sono nati i nostri Istituti e da dove, pieni di speranza e di progetti, siamo partiti per condividere con altri il dono ricevuto. Sono i luoghi in cui abbiamo un grande bagaglio di esperienza, ma dove oggi ci sentiamo più deboli di prima; stiamo reimparando ad essere più umili, come agli inizi della nostra storia. In altri posti ci considerano “adolescenti capricciosi e inesperti”. Si tratta di quei luoghi in cui il nostro carisma non ha ancora raggiunto quel grado di maturità che gli permette di esprimersi in un linguaggio nuovo, in grado di rispondere sia alle radici iniziali e, allo stesso tempo, alle caratteristiche culturali del posto. Sono luoghi dove, d’altra parte, alla vita consacrata arrivano giovani con una grande diversità di motivazioni che dovremo aiutare a purificare, giovani che dovremo saper accompagnare. Sono luoghi in cui ci possiamo sentire forti e tentati di conquistare spazi di potere e di prestigio. Sono luoghi pieni di futuro, che però racchiudono dei pericoli. Ad ogni modo, credo che non siamo “malati terminali” e men che meno “adolescenti capricciosi e inesperti”. Siamo uomini che hanno sentito la chiamata del Signore e che continuano a credere che vale la pena consacrare tutta la propria vita per rispondere a questa chiamata. Siamo persone convinte che la nostra vita abbia senso perché continua a essere spinta dallo Spirito che ci incoraggia e ci fortifica per poter seguire Gesù. Ma siamo anche convinti che bisogna ricreare costantemente questo carisma perché continui ad essere portatore di vita.

Siamo persone che, in questi ultimi anni, sono cresciute nella propria visione del mondo e della propria identità. Lo sforzo che gli Istituti hanno fatto, dopo il Concilio Vaticano II, per presentare in modo nuovo i propri carismi è stato un’avventura appassionata che ha portato i suoi frutti. La vita consacrata è cambiata e credo che sia cambiata per il meglio. Teoricamente abbiamo fatto chiarezza sulla nostra collocazione nella Chiesa e sul nostro patrimonio carismatico. Rimane però la sfida permanente d’interiorizzare questi cammini e far sì che siano veramente ispiratori della vita quotidiana di tutti noi.

Abbiamo preso sul serio l’analisi della realtà nel definire i nostri apostolati. Abbiamo cercato di leggere con attenzione i segni dei tempi e intraprendere processi seri di discernimento. Ci siamo spinti verso nuovi luoghi di missione e ci siamo inseriti generosamente nelle Chiese particolari e nei loro piani pastorali. L’opzione per i poveri è stata una motivazione sempre presente nei nostri progetti missionari e nella ricerca di nuove collocazioni. L’impegno per la Giustizia, la Pace e l’Integrità del Creato è ormai un elemento di cui non si può fare a meno nei nostri progetti pastorali.

Nelle nostre comunità è valorizzata la persona con i suoi doni e ricchezze e si cerca un cammino perché ognuno possa sentirsi pienamente realizzato. Come si afferma nel documento “Vita fraterna in comunità”: “Il clima della convivenza è migliorato; si è facilitata la partecipazione attiva di tutti, si è passati da una vita in comune, troppo basata sull’osservanza, a una vita più attenta alle necessità di ciascuno e più attenta dal punto di vista umano”[3]. Siamo riusciti a trovare una comprensione più giusta dell’obbedienza come sottomissione assoluta al progetto di Dio e ricerca della sua volontà per la comunità e i suoi membri. I processi formativi sono stati analizzati a fondo e abbiamo fatto in modo da privilegiare la personalizzazione dei valori della vita consacrata e dell’identità dell’Istituto.

Le comunità d’inserzione e i molti progetti missionari hanno dato un nuovo volto alla nostra presenza fra i poveri e gli esclusi, sono stati un ricordo costante del grido di queste persone e popoli[4] che, almeno, hanno seminato inquietudine nelle riflessioni delle nostre Assemblee e Capitoli. Spingerci verso nuove frontiere geografiche, sociali e culturali ci ha permesso di arricchire il nostro patrimonio spirituale e la nostra storia con nuove sensibilità, ma ha suscitato anche questioni che ci obbligano ad affrontare alcune domande scomode. Abbiamo creato modelli nuovi di partecipazione di tutti al discernimento e alle decisioni, cosa che ha contribuito a creare una maggiore corresponsabilità, anche se rende più lenti i processi che, a volte, sembrano interminabili.

La nostra spiritualità è diventata più biblica e liturgica e ha saputo integrare la chiamata che arriva dalle realtà del nostro mondo. Il ritorno alle fonti dei nostri carismi ci ha permesso di rileggerli e di cercare in essi modi nuovi per rispondere alle sfide di questo momento storico.

La lista potrebbe allungarsi: sono molti gli aspetti positivi che possiamo scoprire nel cammino della vita consacrata di questi ultimi anni. Ad ogni modo, ci sentiamo un po’ insoddisfatti e inquieti. Non si riesce mai a vedere come tutto questo sforzo realizzato si possa tradurre in maggiori frutti di santità, dinamismo comunitario e audacia apostolica. Cosa ci manca? Verso dove dobbiamo puntare per non perdere di vista il fine? Come vivere oggi questa consacrazione che ci mette totalmente nelle mani di Dio e ci libera da tutto ciò che può impedirci di testimoniare e proclamare la novità del Regno? Sarà sufficiente fare nuovi progetti missionari?

Tutte queste domande ci assalgono, com’è normale, al momento di programmare il nostro Capitolo Generale. Desidero condividere con voi la nostra esperienza. Quando abbiamo iniziato a preparare il precedente Capitolo Generale ci siamo resi conto di una grande convergenza nella preoccupazione dei superiori maggiori dell’Istituto sulla necessità di affrontare il tema dell’identità. Non sentivamo, certamente, la necessità di cercare nuove definizioni, perché eravamo convinti che il processo di rinnovamento dell’Istituto dopo il Concilio Vaticano II ci avesse lasciato alcune formulazioni profonde e precise, sia nelle Costituzioni riviste sia in altri documenti. Inoltre, il magistero dei Capitoli generali e dei superiori generali ci avevano offerto delle indicazioni molto importanti sul tema. Ci preoccupava, però, come questa identità così ben definita dovesse configurare la nostra vita personale, la vita delle nostre comunità e i loro progetti apostolici. Sia le caratteristiche del momento storico che stavamo vivendo sia la pluralità di situazioni culturali presenti nella realtà dell’Istituto ci ponevano nuove domande o, meglio ancora, ci facevano scoprire nuove risonanze nella domanda fondamentale: chi siamo e come dobbiamo vivere oggi questa identità. Abbiamo deciso di evitare la parola “identità”, che poteva portarci ad una discussione eccessivamente teorica, e abbiamo scelto di formulare la domanda in questo modo: come vivere oggi la nostra vocazione missionaria? Questa è stata la preoccupazione che ha orientato il nostro discernimento nella tappa pre-capitolare e durante la celebrazione del Capitolo Generale.

I tre elementi presenti nella domanda ci mettevano in guardia sugli aspetti fondamentali dei quali si doveva tenere conto. Si tratta di una “vocazione”, di un dono, di una chiamata, di un regalo di Dio e non di un progetto principalmente nostro, pensato e definito a partire di noi stessi. È, anzitutto, una chiamata che bisogna ascoltare e alla quale dobbiamo rispondere. Implica una relazione che tocca la vita di chi ascolta la chiamata e deve confrontarsi con sempre nuove domande. Si tratta di “vivere” in sintonia con le esigenze che sorgono da questa chiamata che trova risonanza in tutte le dimensioni della vita. Per ultimo, si tratta di viverla “oggi”, riascoltandola nelle mutevoli circostanze della storia, tenendo sempre presente il “pathos” di Colui che chiama a un progetto di salvezza.

Più tardi, l’itinerario capitolare si è concentrato sul tema della mistica missionaria, come condizione fondamentale per rispondere a questa chiamata. Durante il Capitolo, abbiamo visto con molta chiarezza che avevamo bisogno di rinnovare la motivazione che ci faceva stare attenti alle sfide che scoprivamo nel mondo, pronti ad assumerne le conseguenze che sono il risultato della risposta alle sfide a partire dalle esigenze del carisma missionario che il Signore ci ha dato. Il nostro documento capitolare, che raccoglie gli orientamenti che devono guidare l’Istituto durante questo sessennio, ha avuto come titolo: “Uomini che ardono di carità”, raccogliendo così le parole del Fondatore che ha descritto come voleva che fosse ogni membro dell’Istituto: “Un figlio del Cuore di Maria è un uomo che brucia di carità e incendia dove passa”.

I religiosi, certamente, hanno capito la necessità urgente di ravvivare il fuoco interiore che dà senso alla nostra vita e dà dinamismo all’impegno apostolico. Questa è stata l’esperienza dei nostri Fondatori e di molti nostri confratelli che sono oggi punti di riferimento per tutti noi. Sappiamo molto bene che senza questo fuoco le nostre vite non saranno capaci di trasmettere né luce né calore. Senza di esso il nostro lavoro e le nostre istituzioni non saranno capaci di comunicare il Vangelo del Regno. Senza di esso, i nostri processi formativi non saranno altro che itinerari di abilitazione professionale più o meno riusciti. Senza questo fuoco, la preoccupazione per le risorse economiche necessarie per sostentare la vita e le attività dell’Istituto non saranno molto diverse da quelle di altri gruppi umani. Bisogna recuperare la mistica missionaria: lasciare che Dio s’impadronisca davvero di noi, curare la nostra amicizia con Gesù e lasciarci guidare dal suo spirito. “Aspirare alla santità: questo è in sintesi il programma della vita consacrata”, ci dice il documento Vita Consacrata, numero 93. Per vivere oggi la nostra vocazione da consacrati, per poterla esprimere in una vita missionaria generosa e audace, per “ravvivare il fuoco interiore” è condizione “sine qua non”.

ELEMENTI IMPORTANTI PER RENDERE DINAMICA LA VITA CONSACRATA OGGI

Quali sarebbero i cammini che ci permetterebbero di esprimere in modo più significativo la nostra identità come consacrati? Quali punti evidenziare per raggiungere questo? Condivido con voi alcuni pensieri sperando che, dopo, voi stessi li possiate completare, correggere o riformulare a partire dalla vostra identità carismatica. Mi fermerò su tre aspetti perché credo che siano quelli che meglio rispondono al tema che mi è stato chiesto e raccolgono le tre dimensioni fondamentali della vita consacrata che devono essere sempre ben articolate fra loro: la spiritualità, la fraternità e la missione.

1. Rafforzare la dimensione teologale della nostra vita

Credo che la sfida sia fondamentale. La nostra vita è risposta a una chiamata e solo ascoltando nuovamente la chiamata e lasciando che sia essa a guidare i nostri processi interiori saremo capaci di viverla con gioia e con senso. L’esperienza fondamentale è essere chiamati, catturati e sedotti da Dio in modo che rispondere a questa chiamata diventi la nostra aspirazione fondamentale, l’unica cosa che può dare vero senso alla nostra vita. Ascoltare questa chiamata, prendere coscienza di essa e rispondere, è il primo passo di questo cammino. Dobbiamo sentire la premura di recuperare, curare e approfondire l’esperienza religiosa, sia quella genuinamente cristiana sia quella della propria vocazione e consacrazione nella vita religiosa. Questo sia a livello individuale che comunitario. La qualità della nostra vita si gioca su questo terreno e non su altri criteri di qualità o di eccellenza. Per questo sarà necessario e fondamentale trovare le mediazioni necessarie per coltivare questa esperienza e dimensione. Noi siamo chiamati a essere segni chiari che fanno riferimento a Dio, all’Assoluto, scritto nel cuore di ogni essere umano. La nostra vita dev’essere capace di suscitare domande su Dio nel cuore di coloro con cui siamo in relazione.

Vivere cercando di fare di Cristo il centro della nostra vita deve essere la nostra prima preoccupazione. Si tratta, in poche parole, della passione per Cristo e per il Regno di cui parlavamo nel Congresso sulla Vita Consacrata. Dovremo lasciarci accompagnare dalla Parola e trasformare dall’Eucarestia perché la nostra vita sia, come diceva Benedetto XVI, esegesi vivente della Parola[5], perché il nostro modo di vivere sia veramente eucaristico, un modo di vivere che trovi la sua ragione d’essere nel donare la vita affinché tutti l’abbiano in abbondanza. Solo se vivremo incentrati su Cristo, potremo vivere senza incentrarci su noi stessi, sui nostri interessi, e saremo efficaci nella missione. Per questo dobbiamo curare i tempi e i modi di approfondire la nostra esperienza di fede. È una sfida nell’organizzare la nostra vita, sia nell’ambito personale che comunitario.

Questo comporta un’implicazione fondamentale nello svolgimento della nostra missione. Di fronte alle sfide che la realtà ci presenta ci sentiamo davvero piccoli. In alcune zone vediamo che il numero dei religiosi e delle religiose diminuisce notevolmente. Le previsioni del futuro sono preoccupanti. Inoltre, sembra che la nostra presenza nelle società che hanno raggiunto un livello notevole di progresso economico e benessere sociale sia irrilevante. I servizi che offriamo con le nostre opere, sono ora offerti da altri con buoni risultati. Ci sono innumerevoli piattaforme con le quali i giovani possono dare corso ai loro ideali di servizio agli altri e impegnarsi per un mondo diverso. Ci sono molte le ONG e numerosi gruppi presenti in Africa e in altri luoghi, dove esistono situazioni di emergenza, di povertà e di sottosviluppo economico. Qual è dunque il senso della nostra missione? Nel formulare questa domanda ci sentiamo obbligati a tornare a ciò che è centrale nella nostra vocazione e recuperare quella dimensione teologale che dà senso alla nostra vita e a tutto quello che facciamo. Incentrarci su Dio e sul suo progetto ci permette di scoprire come far rinascere l’importanza delle nostre opere e attività in un mondo che vuole prescindere da Lui o che pretende a volte di manipolarlo.

I nostri Istituti sono nati con una vocazione radicale di servizio in tempi diversi della storia. Si tratta, però, di un servizio che si esprime attraverso quello che siamo e facciamo. L’essere segna il fare e determina il che cosa e il come si fa. Gli Istituti non si originano in funzione del fare, anche se rispondono a bisogni urgenti del momento storico in cui nascono. Ognuno di essi si articola attorno alle tre dimensioni fondamentali della vita ecclesiale (la fraternità, la celebrazione, la missione) e le integra partendo dal carisma specifico ricevuto dal Fondatore e sancito dalla Chiesa. Questo carisma segna il modo di vivere la vita cristiana dei chiamati a una determinata comunità e va oltre il lavoro specifico che è stato loro affidato. È un aspetto importante perché la vocazione di un Istituto non è definita dalla “funzionalità” ma dal profetismo. Ciò presuppone ed esige lo stare profondamente radicati in Dio e nel suo progetto. Approfondire l’esperienza di Dio è la cosa più urgente di ciascuno di noi.

L’esperienza di Dio ci avvicina al punto centrale della persona, ci obbliga ad ascoltare il suo grido e a sentirci solidali con le sue ricerche; ci fa discreti nell’accompagnamento e ci aiuta a valorizzare la ricchezza delle risposte che le persone trovano sul cammino. L’esperienza di Dio ci obbliga ad avvicinare i poveri e gli esclusi, c’invita a essere loro compagni di cammino e crea dentro di noi gli spazi di libertà necessari per rivedere la nostra vita e le nostre opere, a partire dalla situazione. L’esperienza di Dio risveglia in noi una coscienza ecologica e cosmica che ci fa sentire solidali con tutta la creazione e rispettosi dei dinamismi che lo stesso Creatore ha messo in essa. Una profonda esperienza di Dio rende più acuta la nostra sensibilità affinché sappiamo scoprire la sua presenza nella vita delle persone e delle culture, per metterci al loro servizio. Ci rende meno dogmatici e più servitori. L’esperienza di Dio è l’unica forza capace di suscitare quella speranza che si mantiene solida nonostante le difficoltà e che rende dinamico l’impegno per la vita.

Assieme a questo, esiste la sfida di approfondire la spiritualità della piccolezza, della kenosi, anche in mezzo ai grandi progetti che stiamo realizzando. Il religioso “si è svuotato” per lasciarsi riempire da Dio, così che alla sua presenza la sua vita diventi trasparente. La società dei consumi diffonde la falsa convinzione che il successo nella vita e la felicità dipendono dall’abbondanza dei beni e dai trionfi nel campo professionale. La vita religiosa dovrà smontare questa equivalenza, perché ci saranno sempre nuovi beni in offerta e nuove mete da raggiungere. Religiosi spirituali, gioiosi e semplici, che godono del proprio lavoro e della convivenza con i fratelli, saranno grandi testimoni del fatto che la felicità è possibile senza la carriera e la corsa al consumismo, senza vivere asfissiati da una crudele competitività elitista. La nostra vita dovrebbe proclamare ciò che ha espresso così bene Santa Teresa: “Solo Dio basta”. Questa è la prima e grande sfida che abbiamo in programma.

2. Approfondire l’esperienza di fraternità missionaria

L’individuo è stato la grande conquista della modernità, ma la sua esacerbazione – cioè l’individualismo – è nociva e, purtroppo, è favorita dalla cultura commerciale e consumistica. Il consumo, nei gruppi sociali che godono di un certo livello di vita – non necessariamente molto elevato –, non è orientato alla famiglia ma all’individuo: che ognuno abbia la sua TV, la sua macchina fotografica, il suo laptop, il suo cellulare, la sua auto, ecc., anche se, a causa della crisi economica che stiamo sperimentando, ora si mette in questione questo stile di vita. In questa “nuova cultura”, sono molte le persone che si sentono sole e cercano, in qualche modo, ambiti di comunicazione con gli altri, anche se spesso si preferisce una comunicazione che non arrivi a “disturbare” troppo o che non si possa facilmente controllare, come ad esempio la comunicazione telematica. Recuperare, curare e approfondire l’esperienza e la pratica comunitaria è, in questo contesto, una grande sfida per la vita consacrata di oggi. Dobbiamo discernere e cercare quali mediazioni possano aiutarci a tessere di nuovo e approfondire il tessuto comunitario. È qualcosa che non si può improvvisare.

La comunità è “scuola di umanità”. In essa siamo educati all’attenzione all’altro: al suo modo di essere e di pensare, alla sua storia e alla sua esperienza di fede. Nella comunità ci si chiede di ascoltare e di esprimerci, di amare e di aprirci all’amore dei fratelli. In essa cresciamo e diventiamo servitori della crescita degli altri. La comunità aiuta ad accogliere la Parola con fede e gioia, oltre che a essere invitati a vivere il memoriale della Pasqua del Signore che celebriamo ogni giorno. Alla luce della Parola, nel dialogo fraterno, s’impara a scoprire l’altro dentro il progetto di Dio e a vedere la realtà con gli occhi e il cuore del Padre. Guidata dall’ascolto della Parola di Dio e alimentata dalla celebrazione dell’Eucarestia, la comunità consolida la sua esperienza di fraternità. In questo modo, si trasforma per il mondo in annuncio potente delle nuove relazioni che sorgono fra le persone e i popoli quando la Parola illumina il cammino e il Regno occupa il centro del cuore. La vita fraterna in comunità è il primo messaggio missionario che la Vita Consacrata è chiamata a proclamare. Le nostre sono comunità missionarie. La fraternità, quando vissuta con gioia vera, ci rende testimoni del Regno.

La comunità è dono, un dono prezioso di Dio che bisogna curare con diligenza. P. Aquilino Bocos, mio predecessore come superiore generale, ci diceva che per costruire la comunità bisogna saper coniugare nella vita di ogni giorno una serie di verbi: fidarsi, qualificare, costruire, rendere credibile, inculturare, dilatare, collaborare. Ma è importante prendere coscienza che nel coniugare questi verbi esiste un solo soggetto: “noi”. Un noi che è “dono” e “vocazione”, che siamo obbligati a custodire, ringraziare e celebrare. Un noi che deve pure aprirsi alle necessità degli altri ed essere pronto a costruire la comunità come spazio di accoglienza per coloro che cercano Dio e per quelli che sentono il bisogno di affetto e rispetto che, per tanti motivi, la società si rifiuta di dare loro. Un noi che, per ultimo, sa creare spazi necessari di discernimento che aiutino ciascuno a confrontare il proprio stile di vita con i valori del Vangelo che deve annunciare e la propria attività missionaria con le situazioni delle persone alle quali siamo inviati e in mezzo alle quali viviamo.

3. Rendere dinamico l’impegno missionario

Innanzitutto, dobbiamo tener presente che quando parliamo di “missione”, parliamo, ovviamente, di qualcosa di più che di semplici attività apostoliche. La missione va oltre le opere apostoliche concrete, perché articola diverse dimensioni della nostra vita consacrata, che è interamente chiamata ad essere annuncio della novità del Regno. La missione sta al centro della vita consacrata e dell’identità di ogni Istituto.

La missione fondamentale della vita consacrata e di ogni Istituto è la missione della Chiesa, l’unica che Gesù ha affidato ai suoi discepoli. In questo senso, è “nostra” missione, ma con un “noi” che supera i limiti del nostro Istituto o di qualsiasi altro Istituto religioso. È la missione della Chiesa che, fedele al comando di Gesù, continua ad annunciare il Vangelo del Regno a tutti gli uomini, servendo la causa di coloro ai quali, secondo lo stesso Gesù, appartiene: i poveri, i pacifici, quelli che lavorano per la giustizia, i sofferenti. È la missione che Gesù affidò ai suoi discepoli e che è espressa nel Vangelo tramite diversi “invii missionari”: proclamare la Buona Nuova a tutti i popoli (cfr. Mt 28,18; Mc 16,15); essere testimoni della Risurrezione (cfr. Lc 24,46-48; At 1,8); essere portatori di pace e di riconciliazione (cfr. Gv 20,21-23); guarire i malati e aiutare gli esclusi (cfr. Lc 10,1-9); essere luce del mondo e sale della terra (cfr. Mt 5,13-16); amarsi gli uni gli altri con l’amore con cui Gesù ha amato (cfr. Gv 13,34-35), ecc. Si tratta di una missione che ha diverse dimensioni e assume forme diverse nei diversi contesti in cui si realizza. In una parola, si tratta della missione di Gesù, che Lui stesso presentò tramite le parole del profeta Isaia proclamate nella sinagoga di Nazaret: “Lo Spirito del Signore è su di me, perché mi ha unto. Mi ha inviato ad annunciare la Buona Novella ai poveri, a proclamare la liberazione ai prigionieri e la vista ai ciechi, per rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore” (Lc 4,18-19).

Si tratta anche della missione che Dio ha affidato a tutta l’umanità, di custodire la sua creazione e di costruire una storia fraterna e solidale, come vediamo nei racconti della creazione attraverso le pagine della Scrittura, specialmente nella predicazione dei Profeti.

Per capire bene il tema della missione, dobbiamo recuperare la sua radice trinitaria. La missione nasce dalle viscere stesse di Dio Abbà. L’Abbà che genera il Figlio dall’eternità e ce lo invia perché s’incarni nella storia. Il Figlio è l’Inviato che porta avanti la missione che il Padre gli ha affidato. Ma questa missione “filiale” non è l’unica che nasce dal seno di Dio; ce n’è un’altra che scaturisce dal Figlio come acqua viva (cfr. Gv 7,37-39) e procede dal Padre (Gv 15,26): è la missione dello Spirito. Questa continua a realizzarsi nella storia del mondo fino alla fine.

La missione scaturisce, dunque, dall’esperienza di un Dio che è comunione, che è amore e che ci riempie di quest’amore che in noi trabocca e vuole comunicarsi. Il mandato missionario di Gesù è una risonanza della comunione dell’amore trinitario, un invito a dargli, sotto l’impulso dello Spirito, un’espressione concreta nel tempo e nello spazio. La Chiesa ha senso solo come strumento di comunicazione di quest’amore. In questo modo partecipa della “Missio Dei”, ma non la esaurisce né la monopolizza. Questo modo di capire la missione sottolinea la dimensione di gratuità e ci libera dal peso della responsabilità dei risultati. Sarà necessario tradurre questa dimensione nei criteri di valutazione che applichiamo alle nostre attività apostoliche perché questa valutazione non si basi eccessivamente sui numeri, sui conseguimenti degli obiettivi, ecc.

A questa missione noi “ci associamo”. Nella vita consacrata e nei nostri Istituti in particolare, dovremo dare visibilità a quello che ci tocca fare per la realizzazione della missione della Chiesa. Dovremo vedere cosa ciascuno di noi deve apportare e come dobbiamo armonizzare i carismi, come articolare gli impegni a favore di un progetto comune, decisivo per il futuro dell’umanità.

Come vita consacrata ci associamo a questo progetto con alcune caratteristiche importanti. Le commenterò perché mi sembrano fondamentali.

La prima è la necessità di assumere generosamente la vocazione della vita consacrata e situarsi nelle frontiere della missione. Coloro che hanno messo tutto nelle mani di Dio per diventare strumenti efficaci della costruzione del suo Regno non devono avere dubbi nel situarsi alle frontiere geografiche, sociali e culturali dell’evangelizzazione. Sono luoghi che esigono la libertà interiore che nasce dalla consacrazione religiosa e dall’appoggio continuo della comunità. È una chiamata della Chiesa ai religiosi e alle religiose perché andiamo nei posti dove il Vangelo non è stato ancora annunciato, perché diventiamo testimoni dell’amore di Dio tramite una presenza impegnata e solidale negli ambienti della nostra società dove sono più laceranti le ferite dell’esclusione e dell’ingiustizia; perché entriamo in dialogo sincero e aperto con coloro che influenzano in modi diversi e in ambienti diversi la conformazione della cultura nel nostro mondo. Essere pronti ad assumere questa vocazione di frontiera presuppone una profonda spiritualità ed esige un forte senso d’itineranza missionaria. Sentiamo questa vocazione di situarci alla frontiera della missione? Cosa ci fa paura e ci fa diventare reticenti e incollati a quello che “si è sempre fatto”?

Assieme a questo, non possiamo dimenticare ciò che ripetiamo da tanto tempo e che il Magistero della Chiesa ribadisce insistentemente ai religiosi: la necessità di vivere la dimensione profetica inerente alla vita consacrata (cfr. VC 84). Una dimensione che deve trovare espressione concreta nella nostra vita e nella nostra attività apostolica. La vita consacrata è “una parola profetica” per la Chiesa e per il mondo. “Profetica” è quella parola – quando dico parola mi riferisco a tutto quello che è in grado di comunicare un messaggio – che, fortemente radicata nella Parola di Dio, è profondamente impregnata della passione di Dio per i suoi figli e le sue figlie ed è capace di suscitare un cambiamento “secondo il cuore del Padre”. La vita consacrata sarà profetica quando non lascerà più indifferenti coloro che entrano in contatto con i religiosi e le loro attività apostoliche. Sarà così, quando sarà capace di invitare le persone alla conversione, cioè, a vedere la realtà dal punto di vista di Dio e a costruire il suo progetto di vita a partire dai valori del Regno. Sarà così, quando sarà dentro la Chiesa memoria viva della “comunità di Gesù” e delle sue caratteristiche. Sarà così, quando farà lo sforzo di essere nel mondo elemento di cambiamento verso una società più giusta e fraterna, quella cui tutti aneliamo e che i profeti annunciarono ripetutamente come “volontà di Dio”. Chi ha fatto esperienza della potenza trasformante della presenza di Dio e della sua Parola nella sua vita e nella sua comunità, è chiamato a mettersi al servizio di questa “parola profetica”.

Credo che nella realizzazione di questa missione dobbiamo sottolineare alcuni aspetti che ci permetteranno di rispondere con maggiore efficacia – parlo di “efficacia evangelica” – alle sfide che ci presenta il mondo di oggi e di farlo, partendo dalla nostra identità come religiosi. Propongo quattro punti che, secondo la mia esperienza personale, dovrebbero caratterizzare la nostra risposta missionaria.

  1. Una missione in dialogo
  2. Una missione solidale
  3. Una missione in chiave vocazionale
  4. Una missione condivisa

Li commenterò brevemente per permettervi poi di approfondirli e ampliare la lista.

1. Una missione in dialogo

Far partire la missione dal dialogo vuol dire, innanzitutto, portare la situazione della gente al centro delle nostre preoccupazioni. Vuol dire immergersi pienamente nelle domande che riempiono la vita delle persone e cercare insieme le risposte che diano senso a questo momento della storia. Per questo motivo, richiede una grande capacità di ascolto. Si tratta, però, di un ascolto che cerca di capire il senso della parola ascoltata o la situazione scoperta. È un ascolto che accoglie la presenza singolare di ogni persona e sa tenere la mente e il cuore aperti agli interrogativi che si scoprono nelle situazioni che s’incontrano. Il vero ascolto esige umiltà per scoprire la sapienza presente e lasciare che la realtà interroghi le nostre opinioni e i nostri metodi, così come la nostra stessa vita. L’ascolto è esigente. Non possiamo partire con un progetto già fatto o un programma già deciso.

Ma non andiamo a mani vuote. Ci è stato affidato il tesoro del messaggio della Parola di Dio. Portiamo nel cuore l’esperienza dell’incontro con Gesù che ha aperto nuovi orizzonti alla nostra vita e l’ha riempita di senso e di speranza. Le domande che scaturiscono dal dialogo con le persone e le situazioni che incontriamo nel cammino, richiedono anche capacità di discernimento. Dobbiamo illuminarle con la Parola di Dio per poter trovare le risposte adeguate. Questo discernimento va fatto sempre in comunione con la Chiesa, comunità dei discepoli di Gesù, lasciandoci guidare dal carisma che abbiamo ricevuto. Il discernimento esige fedeltà al Vangelo e un profondo senso ecclesiale. Ci chiede anche di fare un esercizio di dialogo all’interno della nostra stessa comunità religiosa.

È bello e ispiratore il messaggio finale del Sinodo sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa. Dopo aver presentato la Parola di Dio come Parola creatrice della vita e del popolo che guida in quel pellegrinaggio che è l’Antico Testamento, ci invita a contemplare la Parola incarnata – Parola che ha un volto: Gesù, il Figlio del Padre – che si fa presente in mezzo a noi e ci ricorda che nella Chiesa incontriamo l’ambito – la casa – dove la Parola viene accolta, celebrata e condivisa e ci dice testualmente: “La Parola di Dio personificata ‘esce’ dalla sua casa, dal tempio, e cammina per le strade del mondo per incontrare il grande pellegrinaggio che i popoli della terra hanno intrapreso alla ricerca della verità, della giustizia e della pace”[6]. Il dialogo è il luogo dove avviene l’evangelizzazione.

Il dialogo ci spiazza e ci indirizza verso le persone che vivono nel seno di altre tradizioni religiose, verso coloro che hanno altri punti di vista; verso preoccupazioni, speranze e lotte degli uni e degli altri. Non ci si concentra più su noi stessi per rivolgere la nostra attenzione alla vita e alla realtà del mondo; in questo modo, stranamente, ci porta a concentrarci molto di più sul piano di Dio per i suoi figli e a stare con le “cose del Padre” (cfr. Lc 2,49).

Il dialogo esige di vivere aperti alle sorprese del cammino ed esige creatività. La vita consacrata e ogni Istituto che la incarna sanno che possono contare su un patrimonio meraviglioso. Abbiamo molti secoli di esperienza nell’annuncio del Vangelo. Bisogna continuare a scrivere la storia missionaria con creatività.

Il dialogo interculturale e interreligioso è tanto appassionante quanto difficile. La nuova coscienza attorno al pluralismo culturale e religioso suscita questioni che ci preoccupano. Il dialogo con le culture, soprattutto il dialogo con le altre tradizioni religiose, ci fa scoprire nuovi modi di porre le domande fondamentali di “senso” e ci permette di affacciarci alla bellezza delle risposte che sono state date lungo la storia. L’esperienza della fraternità universale si allarga e irrobustisce quanto più si approfondisce l’esperienza della paternità/maternità di Dio. Accompagnati da Gesù, riconosciamo l’amore del Padre nelle “parole” che hanno riempito di senso e di speranza il cammino di tanti nostri fratelli e sorelle. Vivere come discepoli di Gesù perché tutti abbiano vita è l’impegno che si può sviluppare in modo credibile soltanto a partire da una gratuità totale. Una vita completamente consegnata – consacrata – a Dio dovrebbe creare nei religiosi una speciale sensibilità per cogliere i segni della Sua presenza e una capacità forte di rispondere alle chiamate che Lui ci rivolge tramite le ricchezze delle culture e le tradizioni religiose che incontriamo.

In questo ambito del dialogo si inserisce il tema dell’inculturazione che ci chiede di rispettare le culture dei popoli ai quali siamo stati inviati: la loro lingua, storia, aneliti e lotte, per costruire fondamenta solide che permettano loro di conservare la loro identità all’interno di un mondo nel quale si percepisce l’imposizione delle culture dominanti. Nella storia degli Istituti religiosi ci sono esempi meravigliosi di missionari che hanno saputo diventare parte dei popoli di adozione; li hanno amati, ascoltati e offerto tutto quello che erano e avevano. È bello ascoltare le espressioni della gente semplice quando parla dei “nostri missionari”. Li hanno sentiti veramente e profondamente “loro”. Sono sicuro che potremmo condividere molte belle storie su questo punto. Certamente si tratta di un dialogo che sa ugualmente essere critico, ma è sempre “amico”. Tutte le culture hanno elementi che devono essere purificati e tutte devono lasciarsi arricchire dall’annuncio del Vangelo.

Infine, una missione in dialogo ci chiede di reimpostare il nostro modo di metterci in relazione col mondo. La vita consacrata ha vissuto il suo rapporto col mondo in modi diversi nelle varie epoche della storia. In un primo momento, si è sottolineata la “fuga mundi”; poi, si è passati a voler “ricreare il mondo” che si stava sgretolando con la caduta dell’ordine sociale stabilito e delle sue istituzioni; si è messo l’accento sulla “conquista del mondo” a Cristo attraverso l’attività missionaria: gli Istituti con i loro carismi hanno tentato di “servire il mondo”; è stato accentuato il “confrontarsi con il mondo”, denunciando le forme di organizzazione e di dominio che provocavano l’esclusione di molti, ecc. In ciascuna di queste forme di relazione col mondo c’è un particolare modo di capire il mondo e la missione della Chiesa in linea con le sensibilità culturali e le situazioni socio-culturali di ogni tempo. La vita consacrata ha fatto un percorso nell’imparare a guardare il mondo in un modo nuovo e a costruire un “rapporto di amicizia” con esso, perché sa che il mondo è così “amato da Dio da mandargli il proprio Figlio”. Il rapporto col mondo è un elemento importante nel momento di pensare la missione della vita consacrata. Dialogare e impegnarsi col mondo non vuol dire arrendersi di fronte alla sfida della secolarizzazione. La vita consacrata vuole essere capace di continuare a provocare la domanda su Dio, ma vuole e deve farlo in modo che sia comprensibile anche dagli uomini e dalle donne delle società secolarizzate. La spiritualità si è incarnata maggiormente nella vita e i religiosi hanno capito che il rapporto col mistero di Dio non si ha solo negli spazi sacri ma lì dove il nostro Dio s’incarna: “Quello che avete fatto a uno di questi miei piccoli fratelli, l’avete fatto a me” (cfr. Mt 25,31-46). Siamo chiamati a vivere la nostra consacrazione nel mondo; non c’è un altro posto per farlo. In questo modo possiamo continuare ad essere espressione dell’amore incommensurabile di Dio per il suo popolo.

2. Una missione solidale

Paolo VI nell’enciclica Populorum Progressio scrisse che la Chiesa “sussulta” davanti al grido angosciato dei popoli che vivono situazioni d’ingiustizia e chiama tutti a rispondere con generosità a questa situazione[7]. Questo “sussulto” o “commozione” davanti alla realtà dell’ingiustizia subita da tanti milioni di esseri umani è il primo passo per un impegno serio per la giustizia e la pace. Nella nostra società riscontriamo un elevato grado di insensibilità. Molti si sono abituati al fatto che le cose vanno in questo modo e sono piombati in una specie di fatalismo che li immobilizza. Ne consegue che, per realizzare un’azione decisa a favore della giustizia, per promuovere un’effettiva solidarietà, è necessario il contatto diretto con la realtà dei poveri e degli oppressi. La situazione d’ingiustizia in cui vivono tante persone ci colpisce, ci fa sussultare? Ci preoccupa? I poveri e gli esclusi hanno, per noi, un volto e un nome, al di là delle immagini trasmesse dai mezzi di comunicazione sociale?

Coloro che sono chiamati a essere testimoni delle Beatitudini e segni del progetto di Dio per i suoi figli si sentono fortemente interpellati dalle situazioni d’ingiustizia ed esclusione. L’opzione per i poveri e l’impegno per la giustizia sono stati incorporati dalla vita consacrata nella sua prassi e nella sua riflessione teologica. Si tratta di un’opzione inerente alla dinamica dell’amore vissuta secondo Cristo. La sfida, per la vita consacrata, è come impegnarsi nella promozione della giustizia a partire dalla propria identità, accettando la revisione costante delle proprie opzioni di vita, dell’uso dei beni e dello stile di rapporti che questo comporta.

Qui si presenta anche la sfida dell’impegno socio-politico. La dimensione politica dell’amore cristiano, che cerca la trasformazione delle strutture perché si faccia giustizia agli oppressi è andata acquistando contorni più precisi nella coscienza ecclesiale e della vita consacrata. Vogliamo esprimere il nostro impegno per la giustizia tramite uno stile di vita e un’azione apostolica che vada alle radici stesse dei poteri e delle oppressioni e cerchi di creare le condizioni che consentano la nascita e il consolidamento di un mondo veramente inclusivo, dove nessuno rimanga emarginato dalla fraternità umana. Qui si gioca, in parte, la credibilità dell’annuncio del Vangelo. Un impegno di questo tipo può essere portato avanti solo sulla base della libertà interiore che rende possibile una donazione assoluta e definitiva a Dio e al suo progetto di salvezza. È un impegno che ci porta a scoprire nuovi orizzonti per vivere la consacrazione religiosa e la fratellanza che ci uniscono.

Poiché crediamo in Dio e desideriamo fare della fedeltà al suo progetto il filo conduttore della nostra vita, ci sentiamo fortemente interpellati da queste situazioni. La Parola di Dio, punto di riferimento fondamentale della nostra vita, ci interroga costantemente in questo senso. Non possiamo dimenticare, però, che la Parola di Dio ha una chiave ermeneutica chiara senza la quale, la sua lettura non arriverà a toccare veramente la vita. Questa chiave è l’amore di Dio per i suoi figli, è la passione di Dio per i poveri, passione che segna radicalmente la vita di Gesù: “Evangelizare pauperibus misit me” (cfr. Lc 4,18). Una chiave alla quale si accede soltanto se si è vicini alla situazione dei poveri e degli esclusi aprendo il cuore a tutte le dimensioni della vita e alle domande che essa suscita. La nostra vita e la nostra parola non avranno la capacità di annunciare il Vangelo né potenza trasformatrice se non ci avviciniamo a queste realtà che ci “focalizzano” nuovamente sul punto centrale del progetto di Dio per i suoi figli. Rinnovare l’opzione per i poveri e gli esclusi e per la giustizia è una condizione indispensabile per essere fedeli alla nostra missione.

La maggior parte degli Istituti religiosi, geograficamente e statisticamente parlando, si trovano sempre di più tra i poveri. La loro crescita avviene, principalmente, nelle zone del mondo dove esistono indici di povertà più allarmanti. Sono contento di vedere l’impegno di molti religiosi, religiose soprattutto, a fianco delle persone che patiscono scandalose situazioni di esclusione, consolando, accompagnando e lavorando con grande generosità perché sia riconosciuta la loro dignità e per migliorare le loro condizioni di vita. Sono molteplici le iniziative di ogni tipo che si portano avanti in questo senso. Infatti, la testimonianza dei religiosi e delle religiose che, malgrado le difficoltà e le minacce alla propria vita, accompagnano le situazioni di esclusione e povertà sono una delle parole più forti e credibili che la Chiesa sta pronunciando. La loro vita non solo trasmette un messaggio di solidarietà e generosità, ma è in grado anche di suscitare domande sul Dio che le ispira.

Nello stesso tempo vedo la necessità di stare sempre molto attenti per evitare di essere trascinati da una certa tendenza all’accomodamento che spesso ci assale e può allontanarci da quest’opzione fondamentale della vita consacrata. Dobbiamo far sì che tutti i nostri progetti siano pensati e realizzati sempre sulla base di un autentico senso di solidarietà con gli esclusi e un impegno solido e chiaro per la giustizia e la trasformazione del mondo. Credo sia molto importante reimpostare la pratica dei voti e della nostra fraternità a partire dalle domande che suscita una missione vissuta in una profonda solidarietà con gli esclusi. Integrare in modo cosciente questo tema nei processi formativi è una delle sfide che abbiamo progettato in tutte le zone dei nostri Istituti. Il Dio che ci ha chiamati, ci ha “unti con il suo Spirito” per annunciare la Buona Novella ai poveri. Non possiamo vivere la nostra consacrazione senza assumere questa missione.

3. Una missione in chiave vocazionale

Un altro elemento che considero importante è impostare la missione in chiave “vocazionale”. Parlo di “chiave vocazionale” in senso ampio, cioè, di un lavoro pastorale – parrocchiale, educativo, sociale o di qualsiasi altro tipo – che cerca l’incontro e la relazione con la persona e tenta di accompagnarla a un’opzione di vita che la riempia di senso e di speranza, che gli permetta di tirare fuori tutto quello che ha di buono dentro di sé per metterlo al servizio di una causa per cui vale la pena. In un tempo in cui si percepisce una chiara mancanza di profondità, un tempo nel quale una forte tendenza all’individualismo s’impadronisce delle persone, questa impostazione pastorale diventa più necessaria che mai. Riguardo ai giovani, per esempio, non dobbiamo sentirci soddisfatti per il solo fatto di avere tanti gruppi giovanili che riempiono le chiese e le piazze. Questo può essere solo un “fatto in più” nella vita dei giovani. Ciò che oggi ci viene chiesto è entrare in un rapporto intimo che cerca di aiutare i giovani a vivere in profondità, a sentirsi amati, a prendere coscienza del fatto che hanno una missione importante da realizzare in questo mondo. Questo è anche il cammino che permette di entrare in un processo di maturazione della fede e d’integrazione responsabile in una comunità cristiana.

Ovviamente questa “missione in chiave vocazionale” non si concentra solo nei giovani, focalizza piuttosto la nostra attenzione per un’azione pastorale che accompagna le persone a un’opzione matura per Cristo e per il Regno. Suppone da parte nostra una profonda esperienza di fede e un desiderio ardente di condividerla. Esige pure di saper dedicare tempo alle persone, aiutarle con grande rispetto a esplicitare le domande che portano nel cuore e accompagnarle nella ricerca di una risposta che le soddisfi. Sappiamo che la troveranno in Gesù. Una pastorale in chiave vocazionale ci porterà a curare anche la formazione della comunità cristiana perché possa diventare il luogo di crescita nella fede e la verifica dei nuovi rapporti che nascono fra le persone quando il Regno occupa il centro della loro vita. All’interno di questa comunità si consoliderà l’opzione personale di fede e ognuno incontrerà l’appoggio necessario per vivere la propria vocazione come discepolo di Gesù e testimone del Regno.

Una missione “in chiave vocazionale” è necessaria in tutti i contesti, ma acquista un’urgenza speciale nei luoghi segnati fortemente dai processi di secolarizzazione. Si tratta di processi che stanno mettendo in dubbio la religiosità tradizionale e il modo di vivere la fede di molte persone. In molte di esse ha significato pure una scomparsa del senso del trascendente dall’orizzonte della loro vita. È qualcosa che si va traducendo nella costruzione di una cultura e di un mondo nei quali Dio non è più necessario e nemmeno si vede la convenienza della sua presenza.

Non voglio dire che la secolarizzazione sia un processo del tutto negativo. Ha pure un lato positivo: implica il riconoscimento della libertà, della dignità e l’autonomia dell’uomo e dei suoi diritti. La secolarizzazione è una grande occasione di purificazione dell’immagine di Dio e delle funzioni del fattore religioso. Purifica il fattore religioso dalla manipolazione sociale, politica e ideologica. Situa il sacro e il santo là dove li colloca il Vangelo e l’esperienza di Gesù. La secolarizzazione diventa però negativa quando si chiude all’apertura a Dio. In questo modo offusca l’orizzonte della vita dell’essere umano e lo rinchiude in uno spazio dove diventa difficile l’esperienza dell’amore di Dio che, a sua volta, dà la capacità di amare e riempie di senso e di speranza la vita delle persone. In questo contesto culturale, i progetti pastorali devono dare priorità all’accompagnamento delle persone perché possano fare una profonda esperienza di Dio e vengano aiutate a maturare nella loro opzione di fede, in modo che possano viverla gioiosamente e si sentano chiamate a diventare testimoni del Regno negli spazi dove vivono. La nostra esperienza personale come religiosi ci deve aiutare a rendere questo servizio ai fratelli.

Siamo alle porte del Sinodo sulla nuova evangelizzazione. Che cosa significa, per noi missionari, questa “novità”? Quali iniziative rispondono a questa chiamata che la Chiesa ci fa? Quali piattaforme pastorali possono dare corso operativo a questa novità che ci viene chiesta? Sarebbe triste se tutto finisse in alcune strategie per recuperare spazi sociali che sono sfuggiti al nostro controllo e influenza.

4. Una missione condivisa

La missione non appartiene a nessuno esclusivamente; appartiene a Dio che effonde il suo amore su tutti gli uomini. La differenza dei carismi è solo una possibilità per esprimere meglio la ricchezza di questa missione che nasce da Dio ed è veicolo del suo amore per tutti. La missione è, essenzialmente, “missione condivisa”.

D’altra parte, il nostro è un tempo di sinergie. I processi di globalizzazione impongono questo parametro nei diversi ambiti della vita e delle attività umane. La complessità delle situazioni e la complementarietà del sapere trasforma in necessità ciò che un tempo era una delle tante opzioni.

Abbiamo visto che il personale dei nostri Istituti è diminuito sensibilmente in alcune parti del mondo. D’altra parte, gli stessi processi di globalizzazione presentano nuove sfide alle quali è difficile rispondere in modo significativo a partire da ogni Istituto. È arrivato il momento d’intraprendere in modo decisivo il cammino della collaborazione. I seminari di riflessione congiunta e gli spazi di collaborazione fra gli Istituti religiosi che abbiamo creato durante questi anni hanno prodotto frutti abbondanti. Adesso sarebbe l’occasione di fare un passo in più e affrontare una nuova tappa di collaborazione tra gli Istituti, designando iniziative evangelizzatrici che possano offrire risposte più significative alle molteplici sfide che ci presenta il mondo di oggi. Alcune esperienze ci fanno scoprire la potenzialità di questa opzione.

Ma la “missione condivisa” va oltre la collaborazione tra gli Istituti. Ci porta a una relazione e collaborazione dinamica con tutti quelli che formano la Chiesa particolare: vescovo, presbiteri e altri ministri ordinati, religiosi e laici. Nasce da una visione di Chiesa nella quale i carismi e i ministeri e le forme di vita che questi generano sanno di essere debitori gli uni degli altri. In questo modo, tramite l’esperienza di comunione, cresce in tutti il desiderio sincero di approfondire la sequela di Gesù, secondo la vocazione che ciascuno ha ricevuto, e di servire la causa di un’umanità più giusta e fraterna, umanità nella quale si rispetti pienamente la dignità di ogni persona, nella quale non ci siano esclusi, in poche parole, un’umanità nella quale Dio sia glorificato, perché “la gloria di Dio è l’uomo vivente” (Ireneo di Lione), il povero vivente (Oscar Romero), la natura vivente (Paolo di Tarso).

La “missione condivisa” ci porta anche alla collaborazione con tutte quelle persone e gruppi che, dalle diverse tradizioni religiose o motivati da diverse ideologie umaniste, cercano di trasformare il mondo perché questo diventi più fraterno e solidale. In questo modo – diremmo noi – lo avvicineremo molto di più al progetto di Dio. Ritengo sia una dimensione importante perché ci situa in un ambito nel quale non siamo più i “protagonisti”, ma dobbiamo aggiungerci, a partire dalla nostra identità cristiana e religiosa, ad un progetto che già esiste ed è condiviso da tante persone. Ci rende più ecumenici o, come ribadisce sempre un mio confratello dell’Istituto, il vescovo Pedro Casaldáliga, molto più macro-ecumenici. Ci educa precisamente in quelle attitudini di rispetto e complementarietà che sono imprescindibili per vivere la “missione condivisa”.

La collaborazione tra gli Istituti ci richiede una riflessione sull’interazione dei carismi e la loro incarnazione concreta nelle attività che hanno caratterizzato la vita degli Istituti lungo la loro storia. Probabilmente, in alcuni casi, richiederà nuovi modelli di organizzazione comunitaria e di governo. L’orizzonte di una maggiore collaborazione fra gli Istituti ci obbliga a introdurre pure alcuni elementi nei processi di formazione iniziale e permanente che preparino le persone a questo tipo di esperienza. Dovremo curare la crescita nella comunione fra coloro che partecipano ad uno stesso progetto e, nello stesso tempo, assicurare il consolidamento di ciascuno nell’identità propria della famiglia religiosa alla quale è stato chiamato. Sono nuove sfide che possono arricchire il patrimonio spirituale di ogni Istituto e della vita consacrata in generale. Sicuramente ci vorrà un nuovo impulso nella proiezione missionaria della vita consacrata. Esigerà molta chiarezza nel disegno dei progetti, con processi d’inserimento che risulteranno arricchiti dalla sensibilità che caratterizza gli Istituti che fanno parte di essi.

La collaborazione con i laici, specialmente quelli con i quali condividiamo la stessa eredità carismatica, farà diventare più ricco il vissuto della nostra vocazione come religiosi. Con essi vogliamo impegnarci in un processo che inizia col guardare insieme la realtà con uno sguardo arricchito dalle prospettive particolari di coloro che vivono la vocazione cristiana come consacrati o come laici. Sappiamo che questi “sottolineano” il carattere secolare e i religiosi il carattere escatologico della missione della Chiesa. I laici accentuano nella comunione ecclesiale il valore che hanno, nei piani di Dio, le cose di fronte alle quali ci troviamo quotidianamente: il lavoro, la famiglia, la politica, ecc. Noi religiosi facciamo della nostra vita un segno del fatto che, pur riconoscendo l’importanza di tutte queste cose, è molto importante vivere nella consapevolezza che la cosa fondamentale è più in là, che non possiamo vivere incentrati nelle “cose di Dio” dimenticando il “Dio di tutte le cose”.

È importante renderci conto dell’importanza che questo ha per la missione della Chiesa e della vita consacrata all’interno di essa. In questo cammino di collaborazione, di “missione condivisa”, stiamo imparando a declinare il linguaggio dell’inclusività che farà di noi dei segni più chiari e intelligibili del messaggio che siamo stati inviati a comunicare. Quando ci apriamo all’esperienza di vita cristiana di quanti hanno ricevuto una vocazione diversa nella Chiesa, riusciamo a comprendere meglio la bellezza del cammino al quale Dio ci ha chiamati e possiamo contemplarlo nell’armonia di tutto il corpo ecclesiale.

CONCLUSIONE

Per concludere, torno al Congresso Internazionale della Vita Consacrata del 2004 e all’espressione che ha usato per esprimere la nostra identità: “Passione per Cristo, passione per l’umanità”. Se non siamo afferrati da questa passione tutto sarà inutile. È questa la cosa più importante in questo momento per conservare il dinamismo dei nostri Istituti.

L’ideogramma che, nella lingua giapponese, indica la parola “occupato” (nel senso di essere “molto occupato”, anche un po’ “assillato”) è composta da due parti: quella della sinistra indica il “cuore” (nel senso di anima o spirito), quella di destra significa “perdere”. L’ideogramma descrive allora la situazione di una persona che ha dimenticato la cosa più importante, che ha perso di vista il centro che unisce tutte le dimensioni del suo essere e colma di significato ogni sua azione. Essa è un po’ sperduta nei suoi progetti.

Il nostro grande compito, quindi, è recuperare l’anima della vita consacrata perché continui a essere fonte di significato e infonda dinamismo alle molteplici e meravigliose attività che noi consacrati portiamo avanti. Si tratta, alla fine, di lasciare che lo Spirito riempia i nostri cuori di “passione per Cristo e passione per l’umanità”.

Josep Maria Abella Batlle, cmf
Missionario clarettiano
Roma, 3 settembre 2012

 


[1] Discorso del Papa Benedetto XVI nell’udienza concessa ai superiori generali il 22 maggio 2006. Osservatore romano, 23 maggio, Madrid, 2005

[2] “Passione per Cristo, passione per l’umanità”. Congresso internazionale della Vita Consacrata. Publicaciones Claretianas, Madrid, 2005, p. 357.

[3] VFC 47.

[5] Benedetto XVI, Angelus, 18/11/2007.

[6] Messaggio al Popolo di Dio della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, n. 10

[7] “La Chiesa, commossa davanti alle grida di angoscia, chiama tutti e ognuno degli uomini perché, mossi dall’amore, rispondano al grido dei fratelli” (PP 3). Alcune lingue hanno tradotto l’espressione latina con “sussultare”.