Martedì 13 giugno 2017
Il discernimento vocazionale in un mondo interculturale” è stato il tema della 89ª assemblea semestrale dell’Unione superiori generali (Usg) tenutasi dal 24 al 26 maggio scorso a Roma, presso il Salesianum (via della Pisana, 1111). Il tema, spiegavano nella lettera di convocazione p. Mauro Jöhri e p. David Glenday, rispettivamente presidente e segretario generale Usg, “si allaccia strettamente anche con quello del prossimo Sinodo dei Vescovi. I superiori generali sono stati invitati a rispondere insieme agli interrogativi proposti nel Documento preparatorio del Sinodo. “La nostra chiamata alla vita religiosa ci chiede di lasciare la nostra terra e di essere pronti ad andare in una terra sconosciuta, tra popoli di razza, religione e cultura diverse”, ha ricordato padre Tesfaye Tadesse Gebresilasie, superiore generale dei Missionari comboniani, intervenendo a quest’assemblea. Nella foto: padre Arturo Sosa, preposito generale della Compagnia di Gesù.

 

Assemblea semestrale
dell’Unione superiori generali,
a Roma.

 

All’89ª assemblea semestrale dell’Unione superiori generali (Usg) sono intervenuti tra l’altro il padre Arturo Sosa, preposito generale della Compagnia di Gesù, sul tema “La vita consacrata in un mondo interculturale oggi”, e il padre Mark Weber, segretario per la formazione della Società del Verbo Divino, su “Discernimento vocazionale in un mondo interculturale: visione globale”.

La seconda parte del tema è stata sviluppata da tre superiori generali provenienti dall’Africa, Asia e America Latina che hanno portato le esperienze dei loro Istituti: il padre Tesfaye Tadesse Gebresilasie, superiore generale dei Missionari comboniani, il padre Mathew Vattamattam, superiore generale della Congregazione dei missionari clarettiani (Cmf), e il padre Leocir Pessini, superiore generale dell’Ordine dei ministri degli infermi (camilliani).

Siamo chiamati ad essere segno di comunione, più che a fare opere

“Molte volte siamo preoccupati perché i religiosi diminuiscono, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti d’America. Ma la sfida non è questa. Credo che il punto sia come possiamo essere, nella Chiesa, uno modello di comunione.

Siamo chiamati a procedere verso la montagna dell’interculturalità, abbiamo gli strumenti per farlo ma non siamo ancora arrivati in cima”. Ne è convinto padre Arturo Sosa, preposito generale della Compagnia di Gesù, intervenuto lo scorso 24 maggio alla 89ª assemblea semestrale dell’Unione superiori generali (Usg) a Roma. “In un mondo che tende all’uniformità, i religiosi devono essere esempio contrario”, ha aggiunto. “Il carisma è all’origine della vita consacrata, non le istituzioni. E oggi siamo chiamati ad essere, più che a fare. Essere segno di comunione tra gli uomini... I radicalismi ideologici, i fondamentalismi religiosi e la lotta per il potere sono alla radice della povertà, della violenza e delle guerre che obbligano a lasciare la propria famiglia, la casa, la regione o il Paese alla ricerca di condizioni di vita migliori”.

“L’interculturalità ci pone sul cammino dell’autentica cittadinanza universale che parte dal riconoscimento di tutti e di ciascun essere umano, i popoli e le loro culture, ciascuno come è, senza differenze e senza distinzioni”, ha proseguito padre Sosa: “Un cammino che porta alla giustizia sociale mediante la riconciliazione. E la giustizia sociale cui si aspira non si raggiunge con rammendi al modello attuale di relazioni sociali con le sue strutture di potere. Suppone nuove strutture di potere in un nuovo modello da disegnare e da rendere realtà, compito cui siamo, ripeto, chiamati a contribuire”. Per p. Sosa, assistiamo “a una crescita esponenziale della mobilità umana grazie allo sviluppo tecnologico e alla tendenza mondializzatrice della nuova epoca storica in cui viviamo”. Tuttavia, “pur essendo vero che è cresciuta la mobilità umana volontaria, scelta liberamente, la maggior parte dei flussi migratori attuali sono obbligati dalle condizioni di povertà, dalla violazione dei diritti umani e dal traffico di persone”.

“Si moltiplicano le resistenze ai flussi migratori nelle società riceventi. La manipolazione dell’identità nazionale per farne un nazionalismo intollerante, e i personalismi politici, mascherati da ‘populismi’, alla ricerca di costituire autocrazie, sono due di queste resistenze all’interculturalità accogliente, che sono presenti in molte parti, e chiaramente in Europa e negli Stati Uniti dell’America del Nord”.

Viviamo in società ferite soprattutto dalla povertà, dalla mancanza di condizioni per una vita degna per la maggior parte della popolazione mondiale. Società ferite dalle disuguaglianze – ha sottolineato p. Sosa – diventate relazioni strutturali che le preservano e cercano di moltiplicarle. Società ferite dalle ideologie che diventano fonte di discriminazione tra gli esseri umani, tra le razze, le caste e perfino tra i popoli. Società ferite dai fondamentalismi religiosi che appoggiano strutture inumane. Società ferite dalla violenza diventata moneta corrente in tutte i contesti e specialmente dalle guerre che allontanano qualsiasi possibilità di vivere nella normalità”. “Per essere cristiano – ha concluso – non è necessario spogliarsi della propria cultura per adottare una cultura cristiana inesistente” ma “aprirsi alla conversione che suppone l’esperienza della misericordia e il perdono dei peccati”.

“I giovani sono in grado di discernere la volontà di Dio”
in un mondo multiculturale?

“Viviamo in un mondo multiculturale a causa della migrazione e della globalizzazione, e i nostri giovani ne sono stati plasmati; ma sono in grado di discernere la volontà di Dio in quel mondo? Come? Sono preparati e in grado sia di vivere sia di impegnarsi in quel mondo?”. Se lo è domandato padre Mark Weber, segretario per la formazione della Società del Verbo Divino, intervenendo il 25 maggio alla 89ª assemblea semestrale dell’Usg con una relazione sul “Discernimento vocazionale in un mondo interculturale: visione globale”.

“Affrontare i propri pregiudizi, il razzismo, o l’etnocentrismo può essere un’esperienza traumatica ed emotiva. La crescita dell’autoconsapevolezza di come si possa reagire negativamente nei confronti di altri valori culturali e visioni del mondo – ha proseguito – può essere un processo di cambiamento doloroso.  La capacità di un candidato di affrontare queste questioni intensamente personali è un elemento di discernimento chiave per la vita e il lavoro interculturale.  Come tratto quelli che sono ‘diversi’?”. Per p. Weber, “le nostre congregazioni hanno tutte enfatizzato l’importanza del comprendere la sessualità nella formazione, come parte essenziale di un approccio integrale alla maturità psicologica ed emotiva” ma “nel contesto dell’interculturalità, sapere in che modo la cultura plasma la visione della sessualità e del comportamento sessuale di una persona è importante”.

Una vocazione a una vita e a una missione interculturale oggi richiede una maggiore flessibilità, senza essere ambigui; apertura, senza essere privi di radici; fedeltà, ma non intolleranza; a proprio agio con l’ambiguità, ma senza abbracciare un relativismo totale. È essenziale una profonda spiritualità per poter vivere un tale ‘tentativo di giungere a un compromesso’ in pace e con gioia”.

Avere comunità religiose multiculturali, ha proseguito padre Mark Weber, “può essere un laboratorio per la crescita della competenza interculturale”: “Tuttavia, il semplice fatto di essere multiculturale non garantisce automaticamente lo sviluppo di una comunità veramente interculturale, né infonde automaticamente nei suoi membri la conoscenza, gli atteggiamenti, i comportamenti e le capacità necessarie per l’interculturalità.  Occorre prestare un’esplicita attenzione a sfruttare le ricchezze di una comunità multiculturale perché essa sia una scuola di apprendimento interculturale”. “Se pare che un candidato usi il proprio bagaglio culturale come giustificazione per ignorare o piegare le norme della comunità locale, bisogna considerare attentamente la cosa”, ha aggiunto p. Weber, “ma usare la cultura come scusa per un comportamento chiaramente inappropriato non si può tollerare”.

“A volte le culture che sono gerarchiche possono dare un’immagine distorta della vita religiosa, vedendola come mezzo per raggiungere uno stato elevato, potere e importanza. Oltre ai fattori precedenti, la pressione familiare a diventare un religioso può essere molto forte in alcune culture. L’influenza dei genitori sull’aspirazione vocazionale di un candidato può essere particolarmente problematica in candidati di culture tradizionali in cui la devozione e il riguardo filiale verso le aspettative dei genitori sono particolarmente forti e perfino deterministici per l’identità vocazionale di una persona. Questi candidati potrebbero cercare di entrare nella congregazione per ubbidire ai genitori, limitando la loro libertà di un vero discernimento”.

Perfino tra i formatori e i superiori, ha sottolineato p. Mark Weber, “a volte vi è la sensazione che una volta che uno è entrato nel processo di formazione, ‘ha una vocazione’ che deve essere ‘salvata’ o ‘protetta’, talvolta nonostante importanti informazioni riguardo al suo atteggiamento e comportamento che indicano che in effetti potrebbe non avere una vocazione per la nostra vita religiosa interculturale. In questi casi il pericolo è che il desiderio di tenere qualcuno nella congregazione possa in effetti impedire il discernimento continuo per tutta la durata della formazione”.

“Se Dio non ci aiuta possiamo fallire… qualunque sia il nostro background”

“A volte pensiamo che quello che è puramente evangelico e ispirato dallo Spirito Santo appartenga a un gruppo di persone di una certa cultura, quando sappiamo che è un dono che viene da Dio ed è un arduo comando divino per tutti noi. I nostri fallimenti ci dicono che se Dio non ci aiuta possiamo fallire, da qualunque luogo veniamo o qualunque sia il nostro background”. Lo ha affermato padre Tesfaye Tadesse Gebresilasie, superiore generale dei Missionari comboniani, nel corso della 89ª assemblea semestrale dell’Usg.

Parlando di sfide e difficoltà incontrate nel discernimento vocazionale rispetto alla formazione interculturale, Tadesse ha rilevato che “a volte non abbiamo formatori/educatori con sufficiente esperienza e conoscenza dei background culturali dei nostri candidati”. Inoltre, in alcuni casi, “abbiamo sminuito le tensioni e i conflitti storici tra vari gruppi di persone e abbiamo tentato di creare una comunità senza affrontare la questione della riconciliazione, del perdono e della guarigione”. Per questo, ha evidenziato il superiore generale dei comboniani, “abbiamo bisogno di sapere e capire che i nostri candidati vengono da contesti in cui affrontano discriminazione e pregiudizi per il fatto di appartenere a un gruppo”. “Nella nostra Congregazione – ha aggiunto padre Tesfaye – abbiamo detto che la fase della formazione iniziale è una fase importante del nostro cammino di maturazione nell’apprendere come vivere nelle comunità interculturali”.

Le nostre comunità sono interculturali e perciò anche intergenerazionali. Alcuni elementi positivi e negativi del vivere insieme interculturalmente possono anche essere frutto di un vivere insieme intergenerazionale. Quindi dobbiamo anche discernere se i nostri candidati e confratelli in formazione sono pronti a vivere in una comunità intergenerazionale, quando lasciano la casa di formazione”.

“La nostra chiamata alla vita religiosa ci chiede di lasciare la nostra terra ed essere pronti ad andare in una terra sconosciuta, da popoli di razza, religione e cultura diverse”, ha ricordato Tadesse in apertura, sottolineando che “in molti Paesi il clero e le comunità religiose vivono e servono in un ambiente interculturale”. Il superiore generale ha poi richiamato quanto rilevato dall’ultimo Capitolo generale dei comboniani del settembre 2015: “La multiculturalità è una grazia che fa parte del ‘patrimonio carismatico’ del nostro Istituto sin dalla sua fondazione”. Ciononostante “alcuni confratelli vivono la multiculturalità con ansia, frustrazione, indifferenza o superficialità” mentre “altri colgono in questa dimensione una grazia per maturare sia nell’identità di Missionari comboniani sia nella qualità delle relazioni interpersonali e nella profezia della missione”.

“Preparare missionari con una formazione adatta al vivere interculturale”

“La destinazione missionaria oggi è da Sud e da Est a Nord e a Ovest con tutte le relative implicazioni (ex colonie, finanziariamente povere, per la maggior parte nuove missioni). Questo cambiamento di contesto del mandato missionario solleva molte sfide e tuttavia porta anche molti doni”. Lo ha affermato padre Mathew Vattamattam, superiore generale della Congregazione dei missionari clarettiani (Cmf), nel corso della 89ª assemblea semestrale dell’Usg a Roma.

Vattamattam ha rilevato come, nel contesto attuale, sia “necessario preparare missionari con una formazione adatta al vivere e al fare missione interculturale”. Ma, ha ammonito, “i giovani candidati debbono avere un buon fondamento nella loro cultura prima di essere inviati in un’altra cultura”. Per questo “è importante aiutare gli studenti a rafforzare quegli aspetti che sono deboli nelle loro rispettive culture”.

Vattamattam ha inoltre sottolineato come sia importante “facilitar un apprendimento sistematico della lingua del luogo dove il missionario è inviato” così come l’educare “all’uso dei mezzi di comunicazione e di internet per servire la missione”. “La formazione teologica – ha aggiunto – deve diventare più orientata alla vita e più sperimentale”. Inoltre, “dato che l’evangelizzazione richiede il cammino del dialogo, i programmi di formazione dovrebbero preparare i candidati ad entrare nel dialogo con le culture, le scienze ed altri credenti”. “L’imperativo dell’interculturalità non è un’opzione”, ha concluso Vattamattam, “ma un modo ‘obbligato’ di evangelizzare per i missionari oggi”. Per questo “siamo costretti a prestare la dovuta attenzione al discernimento vocazionale e a un’adeguata formazione per vivere una comunità interculturale e svolgere una missione”.

“Dopo 22 anni di esperienza nel campo della formazione, resto convintissimo che abbiamo bisogno di un cambiamento dei presupposti di base sul modo di formare i nostri giovani alla missione, oggi. Il contesto interculturale lo rende estremamente urgente”.

“La formazione alla vita sacerdotale/religiosa è tra le più lunghe per durata (tra i 9 e i 12 anni)”, ha osservato Vattamattam, rilevando che “in generale, gli approcci formativi si preoccupano per lo più di offrire un ‘contenuto’ piuttosto che fare attenzione al ‘processo’ di trasformazione dei candidati”. Inoltre “i programmi di formazione sono soprattutto intellettuali e informativi” facendo sì che “una persona può avere ottimi voti e aver compiuto studi specializzati in discipline ecclesiastiche senza che questi incidano nella sua vita personale”. A ciò si aggiunge che “i formatori sono meno dotati per capire e accompagnare i processi di maturazione dei candidati”; se “è più facile esigere la disciplina esterna”, dal punto di vista formativo “è più importante occuparsi di quello che accade nei candidati e di quello che fanno con essa”. “Spesso – ha riconosciuto Vattamattam – non abbiamo alcuna idea su come formare un missionario pio e impegnato”.

“Se le nostre comunità non diventano interculturali, non sopravvivranno”

“Uno stile di vita interculturale è il futuro della vita consacrata. Se le nostre comunità non diventano interculturali, non sopravvivranno. Ma la questione è questa: come costruire concretamente questa nuova cultura e questo spirito e relazione interculturali?”. È la domanda posta da padre Leocir Pessini, superiore generale dell’Ordine dei ministri degli infermi (camilliani), nel corso della 89ª assemblea semestrale dell’Usg.

“L’incarnazione del Verbo è stata un evento culturale”, ha osservato Pessini, aggiungendo che “l’interculturalità è l’incontro tra il messaggio salvifico di Gesù con la molteplicità delle culture”. Per questo, “un’autentica inculturazione della fede cristiana è basata sul mistero della incarnazione”. Inoltre, “l’inculturazione porta come sua esigenza il rispetto per la dignità della persona, di ogni persona e di tutta la persona... Essa comincia quando incontriamo il Cristo vivo nell’altro e finisce quando contempliamo il Cristo resuscitato”, ha proseguito il superiore generale dei camilliani, per il quale “interculturalità non significa la perdita o la diluizione della propria identità personale e culturale, ma porta in sé l’esigenza di una apertura verso l’altro che è ‘diverso e differente’”.

Secondo Pessini, “solamente quando siamo aperti all’altro sentiremo che la diversità può arricchire la nostra vita”. Ma “questo processo esige educazione interculturale, una comunicazione chiara e l’integrazione della prospettiva dell’altro nella nostra visione (l’esercizio di camminare con le scarpe dell’altro)”. “Più che temere – ha ammonito – dobbiamo rallegrarci della bellezza del volto multi-colorato del nostro Ordine”.

Il tema dell’interculturalità è una sfida importante per la formazione religiosa oggi. Infatti il fenomeno della mondializzazione conduce paradossalmente a un certo risveglio di nazionalismi e particolarissimi culturali: è dunque urgente per noi religiosi saper affrontare le sfide della nostra modernità, preparando i nostri religiosi a vivere saldamente la loro identità di fronte a una cultura che tende a indebolire o a ‘liquefare’ la loro stessa scelta di vita radicata in Gesù Cristo”.

Rispetto al tema dell’interculturalità, Pessini, citando le risposte a un questionario sottoposto a diversi formatori camilliani, ha osservato che “gli istituti di vita consacrata non sono esonerati dal confronto con questo fenomeno mondiale: anzi ne sono particolarmente coinvolti, proprio perché la ‘missio ad gentes’ specifica della Chiesa genera intrinsecamente a questo incontro tra diverse culture”. Parlando delle sfide, il superiore generale dei camilliani ha rilevato che è necessario “reimpostare le nostre realtà formative” perché “oggi non si può più lavorare in questo ambito, in modo autonomo, autoreferenziale, da solitari”. “Dobbiamo finalizzare le nostre forze e risorse – ha aggiunto – soprattutto visto il calo del numero dei candidati alla vita consacrata”. Per Pessini, “nessun paradigma culturale può pretendere di essere unico e di poter spiegare totalmente tutta la realtà”, per cui “ci troviamo di fronte all’imperiosa necessità di un atteggiamento pluralistico nei confronti della diversità culturale”. “Nel processo di formazione – ha ricordato – è prioritario seminare la ‘cultura del Vangelo’, che è l’amore verso tutti, in quanto Gesù è venuto per salvare tutta la umanità e le sue diverse culture”.