Parla spesso per immagini Gesù, perché invece di chiudere e definire discorsi, desidera aprire sentieri di vita, che ciascuno può percorrere con libertà e con tutto se stesso. Quella della vite e dei tralci, che ci viene offerta in questa domenica, è ben conosciuta in Israele e in tutto l’Antico Testamento: Israele è la vite che il Signore ha piantato, come sposa feconda essa produce frutti di amore e, legata al suo Dio che ne è l’agricoltore, genera il vino della gioia.

L’amicizia con Dio

Giovanni 15, 1-8

Parla spesso per immagini Gesù, perché invece di chiudere e definire discorsi, desidera aprire sentieri di vita, che ciascuno può percorrere con libertà e con tutto se stesso. Quella della vite e dei tralci, che ci viene offerta in questa domenica, è ben conosciuta in Israele e in tutto l’Antico Testamento: Israele è la vite che il Signore ha piantato, come sposa feconda essa produce frutti di amore e, legata al suo Dio che ne è l’agricoltore, genera il vino della gioia.

Si tratta di un legame, che adesso in Gesù viene non solo rafforzato ma stabilito per sempre: Egli è la vera vite da cui si può trarre la linfa dell’amore di Dio che ci fa produrre frutti. Le false viti, quelle di una religiosità esteriore, che offre sacrifici ma non vive il legame d’amicizia con Dio, che moltiplica preghiere senza cambiare il cuore, che fa atti di culto senza vivere l’amore, sono viti che non producono frutto. Senza il legame autentico con il Signore, la vite della nostra vita religiosa e quella della nostra esistenza rischiano di inaridirsi e di essere devastate dagli animali selvatici.

Con l’immagine della vite e dei tralci, allora, Gesù vuole anzitutto presentarci il Dio-Amico che vuole fare “legame” con noi. Infatti, in ogni casa di Israele c’era anche una vite, che offriva a tempo debito le delizie e la gioia del vino alla famiglia che vi abitava, e offriva anche il riparo dal caldo e un senso di ristoro, stendendosi con i suoi rami e le sue foglie attorno alla casa. La vite, allora, era più che una semplice pianta: era parte della famiglia e con essa si stabiliva un legame quasi affettivo, mentre essa offriva linfa, ristoro, gioia e vita.

Gesù ci dice che vuole diventare “uno di famiglia”, vuole stabilire un legame, un’amicizia, una relazione d’amore con noi. E se gli permettiamo questo, di essere la vite della casa della nostra vita a cui siamo “legati”, allora Egli farà scorrere in noi la linfa del suo amore. E riceveremo forza nelle difficoltà, luce nelle oscurità, ristoro nella fatica. Porteremo frutti di amore, di gioia e di vita in tutte le nostre situazioni quotidiane. Se, invece, pur moltiplicando atti religiosi esterni, preghiere, devozioni e sacrifici, il Signore resterà ancora all’esterno della casa, un Dio sconosciuto e lontano, frequentato di tanto in tanto e senza legame con la nostra vita quotidiana, allora ci inaridiamo e non portiamo più frutto.

Il segreto di tutto è nel verbo “rimanere”. Non è nel fare, ma nel coltivare un legame di amicizia, una relazione personale, un’accoglienza continuativa della Sua Parola che ci trasforma. In un tempo così complesso e sospeso, in cui la tentazione è quella di lasciarsi andare nello smarrimento o ripetere le cose di sempre senza entusiasmo, ciò a cui siamo chiamati è restare con Lui. È accogliere sempre e di nuovo il Suo Vangelo. È imparare a riconoscere le false viti da cui pensiamo di trarre linfa, per scegliere sempre e di nuovo Lui. Solo così portiamo frutto: la vita si moltiplica e fiorisce di nuovi grappoli.
[Francesco Cosentino – L’Osservatore Romano]

La vite, i tralci e la potatura

Commentario a Gv 15, 1-8

Se nella domenica scorsa Gesù usava un’immagine sorta del mondo culturale dei allevatori di bestiame (per costruire l’allegoria del Buon Pastore), quest’oggi l’immagine scelta è quella della vite, legata alla vita degli agricoltori della riva orientale del Mediterraneo, dove è cresciuto Gesù stesso. Oggi il vino è molto conosciuto e consumato ovunque e penso che, anche se molti no conoscono direttamente la pianta che produce questa deliziosa bevanda, l’immagine usata da Gesù diventa significativa per tutti noi, di qualunque cultura. Vediamo di usarla per approfondire il nostro discepolato:

1. La vite, la pianta capace di trasformare gli elementi chimici in nuova vita

Gesù compara se stesso con la vite, che viene piantata e coltivata dal Padre perché dia buoni grappoli ‘uva. Gesù Cristo, con la sua personalità radicata nel Amore del Padre, passa ai suoi amici, comparati con i “rami” di un albero, la sua stessa vita ricevuta dal Padre, in modo che anche noi possano dare frutti abbondanti. Ci sono alcuni oggi che sembrano pensare che la vita può crescere e svilupparsi “autonomamente”, come se la vite potesse crescere e dare frutto senza una terra o senza un “coltivatore”. I discepoli di Gesù, invece, sappiamo molto bene che, senza l’amore fondante del Padre e senza la “vite” Gesù Cristo, noi non diamo frutto o i nostri frutti diventano acervi.

Altri, alcuni cristiani inclusi, sembrano confondere la Chiesa con una associazione politica, un’organizzazione umanitaria o un club di filosofi. Ma la Chiesa è, in primo luogo e soprattutto, la comunità di coloro, la cui vita è legata a Dio per mezzo di Gesù Cristo. Certamente, la Chiesa è e fa molte cose: La Chiesa possiede, per esempio, molte scuole e ospedali, e porta avanti molte altre attività con effetti sociali, economici, culturale or anche politici… Ma non confondiamo le cose: La Chiesa è, in primo luogo, un spazio di fede e di relazione con il Padre per mezzo di Gesù Cristo. Se venisse a mancare questa fede, subito mancherebbe anche la Chiesa e i suoi frutti sociali.

2. I tralci, che sorgendo dalla pianta e danno frutto

Gesù ci dice, che se Lui è la vite, noi siamo i tralci. San Paolo, usando un’altra immagine, dice che noi siamo i membri del suo corpo. Le due immagini sono molto efficaci per farci capire che senza Gesù noi non abbiamo vita né siamo capaci di dare frutto. Per questo dobbiamo evitare due pericoli:

* Rompersi, separarsi dalla pianta: Mi ricordo di quando ero giovane e accompagnavo mio padre a lavorare nella vigna. Quanta attenzione facevamo a non rompere y tralci, specialmente quelli molto carichi! Era tanto facile strapparli e perdere il promissorio frutto che portavano nella loro fragilità. La stesa cosa succede con noi, quando per incoscienza or orgoglio, arriviamo a pensare che possiamo arrangiarci fare da soli e ci separiamo da Gesù. Se cadiamo in questa tentazione, molto presto diventiamo secchi e sterili, incapaci di dare frutto o di maturare quelli che abbiamo già prodotto. E’ fondamentale rimanere uniti a Gesù nell’amore personale, nell’obbedienza ai suoi comandamenti, nella comunione ecclesiale, nella apertura allo Spirito Santo.

* Dimenticarsi la potatura: Gli agricoltori sanno molto bene che una vigna non potata diventa subito una vigna invecchiata e incapace di fare uve. Io stesso ricordo una vite che avevamo in una delle nostre comunità. Per qualche anno, nessuno si è preoccupato di potarla, con il risultato che, non solo non dava più uve, ma la vite stessa stava morendo. Quando abbiamo deciso di potarla, in molto poco tempo la vite si riprese vigorosamente e diede già al primo anno frutto abbondante. Il significato di questa allegoria per la nostra vita è molto chiaro, se vogliamo ascoltarlo: una vita che si “abbandona”, che non viene “potata” mediante la preghiera, l’ascolto della parola, il discepolato continuo… è una vita che diventa sterile e muore.

La vita e la missione del discepolo trovano la sua forza nella unione con Gesù; questa vita non darà frutto e muore, se non viene continuamente coltivata con l’ascolto della Parola, l’apertura allo Spirito, l’obbedienza ai comandamenti, la fedeltà alla comunità…

3. Il frutto: l’uva che produce il vino, capace di trasformare la vita in un banchetto di festa

Tutti noi vogliamo dare frutto, essere portatori di vita per noi e per gli altri. Ma bisogna ricordare che il frutto non è qualcosa di artificiale che si può “appicciare” dall’esterno sui rami degli alberi. Il frutto non viene dall’esterno ma dall’interno. Soltanto la vita interiore della pianta può portare la pianta a dare frutto. Lo stesso succede con il discepolo/discepola: darà frutto soltanto se ha una vita interiore, una relazione profonda con Gesù Cristo, e se si fa potare dal Padre continuamente. Se così fa, la sua vita darà molti frutti, come dice S. Paolo, frutti di bontà e generosità, di gioia e di pace, di umiltà  e di servizio… frutti di vita nuova, la cui radice sta in Gesù Cristo, e i cui rami sono continuamente potati e coltivati dal Padre mediante il suo Spirito.
P. Antonio Villarino
Bogotá

Cristo, la vera vite che dà frutto

Atti 9,26-31; Sl 21/22; 1Gv 3,18-24; Gv 15,1-8

Il brano evangelico di questa domenica si trova al centro di quel lungo colloquio di Gesù coi suoi discepoli, intessuto di raccomandazioni e confidenze, che viene chiamato «discorso d'addio» o «testamento spirituale» (cf. Gv13, 31;17, 26). Ci domina l'allegoria della vigna, che è un'immagine classica dell'Antico Testamento per indicare i rapporti che intercorrono tra yahweh e il popolo dell'Alleanza: rapporti di cura, attenzioni, sollecitudini. Però, nonostante quest' amore, la vigna (Israele) risulta ingrata, delude le speranze di Dio, non produce i frutti attesi. Uno dei testi biblici che illustra questa delusione divino è quello di Isaia 5, 1-7. sullo lo stesso tema si può anche leggere Ct1, 2-8; 17, 1-10; sal 80; Mc12 (Vignaioli omicidi).

Nella pagina odierna di Giovanni occorre notare una novità significativa: la vigna non è più un popolo, ma la persona stessa di Gesù (" Io sono la vera vite"); occorre registrare anche l'aggettivo "vera" che ricorre con insistenza nel quarto vangelo per indicare la pienezza della realtà attuale rappresentata da Cristo (il vero o buon pastore, il vero pane del cielo). Gesù, vera vigna, è quindi l'Israele perfetto che corrisponde alle attese del vignaiolo celeste. Ma questa vite non è destinata a rimanere sola. Cioè Cristo, "vera vite", forma il popolo della nuova Alleanza, innestato sulla sua persona. Si tratta della Chiesa, che diventa in tal modo la nuova vigna di Yahwe, quella destinata ad essere all’altezza dell'amore, della cura e della sollecitudine di Dio. Pero, vengono definite due esigenze irrinunciabili, espresse con due verbi tipici di Giovanni: rimanere e portare frutti.

Rimanere (o dimorare), nel quarto vangelo, indica qualcosa di più di un legame superficiale, occasionale, provvisorio, ed esprime una realtà profonda, un’unione vitale, una "connivenza" duratura. Si tratta di dimorare nella Parola di Gesù (GV8,31), cioè bisogna che questa penetri nelle nostre arterie e venga assimilata fino a diventare la regola ispiratrice della condotta dei cristiani. Si tratta inoltre di dimorare in Gesù stesso (Gv6,56), cioè essere strappati a se stessi o decentrati ed avere la sua dimora e il suo centro, d'ora in poi, nel Cristo.

Lo scopo di tutto quanto è di favorire la fecondità del tralcio inserito nella vite (vera). Questo aspetto è posto in risalto dall' insistente ripresa (sei volte) dell'espressione "portare frutto". La condizione essenziale per arrivarvi è la comunione vitale con Gesù espressa dall' invito: «Rimanete in me e io in voi». Infatti, i rami inseriti nella vite sono e debbono essere fecondi.

Questa mutua appartenenza ("rimanete in me e io in voi") è anche la condizione per fare una preghiera efficace e per essere suoi discepoli: «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli». La rivelazione effettiva della gloria di Dio coincide con il "portare molto frutto" e "diventare discepoli di Gesù". “Rimanere in Gesù”, “il portare frutto” e “diventare discepoli di Gesù” sono quindi, dimensioni che si sovrappongono.

Il Cristo, la sua vita e il suo messaggio costituiscono dunque il terreno vitale in cui devono radicarsi i cristiani e la Chiesa. Se si radicano altrove (nella forza, nel potere, nella ricchezza, nel prestigio, nel successo, nei calcoli umani, ecc) possono essere tutto meno che la vigna del Signore.
Don Joseph Ndoum

“Voi siete i tralci”:
potati e fecondi per la Missione

Atti 9,26-31; Salmo 21; 1Giovanni 3,18-24; Giovanni 15,1-8

Riflessioni
Gesù nel Vangelo si identifica con la vite: “Io sono la vite vera” (v. 1). L’affermazione odierna va collegata alla serie di definizioni che Gesù dà di se stesso, raccolte dall’evangelista Giovanni: Io sono il Pane vivo” (Gv 6); “Io sono l’acqua fresca (Gv 4); “Io sono “Io sono la luce del mondo” (Gv 9); “Io sono la porta, il Buon Pastore” (Gv 10); “Io sono la risurrezione e la vita” (Gv 11), “Io sono la via, la verità, la vita” (Gv 14)… E oggi: “Io sono la vite, voi i tralci” (v. 5). Sono affermazioni che ci riportano all’auto-definizione del Dio dell’Esodo: “Io-Sono mi ha mandato a voi” (Es 3,14). Emerge in modo chiaro che le rivelazioni dell’identità di Dio, e di Gesù, sono per sé stesse un Vangelo, una buona notizia, e contengono una missione, un mandato da portare ad altri. Dopo l’ultima cena di Gesù con i discepoli, nel contesto di addio, già di per sé carico di significato ed emozioni, si inserisce il passo odierno del Vangelo sulla ‘vite e i tralci’, nel quale Gesù fa propria la ricca tematica biblica della vite, cantata dai profeti (Isaia, Geremia, Ezechiele…) e nei salmi (80). Egli è la vite vera del nuovo Israele, che non deluderà l’attesa divina, perché darà molto frutto.

Nel brano della vite e dei tralci c’è una rivelazione trinitaria: il Padre è l’agricoltore (v. 1), il Figlio è la vite, lo Spirito Santo è la linfa vitale e amorosa nel seno della Trinità e nel cuore dei discepoli, che sono i tralci. Gesù spiega: “Io sono la vite, voi i tralci” (v. 5). In ciascuno di noi c’è la stessa linfa di Cristo, la stessa vita! Cristo in me! Io in Cristo! Insieme per portare molto frutto e diventare suo discepolo! (v. 8). La condizione indispensabile per portare frutto sta nell’unione del tralcio con il ceppo. Gesù ci invita ad una vera simbiosi, cioè vita insieme: “perché senza di me non potete far nulla” (v. 5). Su questo punto l’esperienza della vita agricola non ammette alternative né eccezioni. Da qui l’insistenza di Gesù: “Rimanete in me e io in voi” (v. 4).

Nel corto brano odierno, appare per ben 7 volte il verbo “rimanere”. Non basta quindi una presenza qualunque, di passaggio, come un volo d’uccello di pianta in pianta, o di farfalla da un fiore all’altro; ‘rimanere’ indica stabilità, dimora fissa, residenza. Cioè amicizia, comunione, empatia, preghiera. Papa Francesco ci invita a invocare lo Spirito Santo e a essere «ben fondati sulla preghiera, senza la quale… l’annuncio alla fine è privo di anima». (*) Un’amicizia che si rafforza nella “potatura”, vissuta come necessario passaggio di purificazione e di fecondità, “perché porti più frutto” (v. 2). Ce lo assicura anche Giobbe, che di potature se ne intendeva: felice l’uomo che è corretto da Dio, le cui mani feriscono solo per risanare (cfr. Gb 5,17-18).

L’invito a fidarsi sempre di Dio - anche nei meandri del dolore - ci viene pure da san Giovanni (II lettura), perché “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (v. 20). Egli ci dà lo Spirito Santo (v. 24), per aiutarci a non amare solo a parole, “ma con i fatti e nella verità” (v. 18). Una testimonianza di così grande amore la offre la storia di Saulo-Paolo (I lettura): dopo aver perseguitato i cristiani, scopre in essi la presenza di quel Signore che gli ha cambiato la vita. Sulla strada di Damasco non nacque solo un cristiano, ma l’apostolo, il grande missionario, che - grazie alla mediazione di Barnaba che lo presentò agli apostoli - predicava a Damasco e a Gerusalemme con coraggio, apertamente, nel nome del Signore Gesù (v. 27-28).

Va fortemente sottolineato il ruolo di Barnaba come amico, accompagnatore, consigliere e socio di Paolo nella missione. Le paure e i sospetti verso Paolo erano grandi, non solo perché era stato un persecutore, ma soprattutto perché «Paolo manifestava una forza ed una ampiezza di visione che sorprendeva e intimoriva i cristiani che già si erano assuefatti a una vita senza il soffio missionario che dimostrava il neoconvertito. Egli predicava con coraggio e non aveva paura di intavolare discussioni con Ebrei di lingua greca. Il suo messaggio e la sua veemenza gli creavano problemi, ma Paolo prendeva sul serio quello che tanto ci costa: amare il prossimo nella sua situazione concreta» (Gustavo Gutiérrez).

Invece di evadere in progetti personali, Paolo, potato e fecondato nella sofferenza, affronta incomprensioni e divergenze, accetta il confronto con gli altri apostoli, non si isola, ma cerca e mantiene la comunione con il gruppo. Un esempio per coloro che, anche oggi, si dedicano con passione alla causa missionaria del Vangelo e incontrano spesso difficoltà e contrasti anche all’interno della comunità ecclesiale. La tentazione di abbandonare sembrerebbe la scappatoia più facile. Paolo invece è rimasto, ha resistito, ha rinnovato la Chiesa dal di dentro. Cercando sempre la comunione. Con amore!

Parola del Papa

(*) «Lo Spirito Santo infonde la forza per annunciare la novità del Vangelo con audacia (parresia), a voce alta e in ogni tempo e luogo, anche controcorrente. Invochiamolo oggi, ben fondati sulla preghiera, senza la quale ogni azione corre il rischio di rimanere vuota e l’annuncio alla fine è privo di anima. Gesù vuole evangelizzatori che annuncino la Buona Notizia non solo con le parole, ma soprattutto con una vita trasfigurata dalla presenza di Dio».
Papa Francesco
Esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013) n. 259

P. Romeo Ballan, MCCJ